HORROR VIDEOCLIP

 

 

Il caso più noto e clamoroso di “artista-rovinato-da-un-videoclip” resta quello di Billy Squier (seguite il link per saperne di più), ma siamo sicuri che un videoclip avesse davvero il potere di “rovinare” qualcuno? Se la canzone era okay ma le immagini che la accompagnavano risultavano ridicole, stupide, volgari o semplicemente idiote, questo condannava la canzone a non diventare mai una hit? La bruttezza o la ridicolaggine di certi videoclip fino a che punto ha influenzato la carriera delle band che vi si affidavano per farsi conoscere dal pubblico di MTV? La mia opinione è che non le ha influenzate per niente. E questo per il semplicissimo motivo che la stragrande maggioranza dei videoclip di una volta facevano pena. Pena, perché i budget erano in genere molto scarsi, i registi quasi sempre dei cani, e i musicisti non sono attori. E anche perché dai videoclip nessuno si aspettava molto, in fondo erano solo un modo (o una scusa) per passare una canzone alla TV senza dover lasciare lo schermo nero. Ogni tanto, è vero, qualcuno azzeccava la storia o l’ambientazione giusta (i Quiet Riot di “Bang Your Head”, gli ZZ Top di “Legs”) per farsi anche guardare, ma il più delle volte, sarebbe stato meglio lasciare lo schermo nero… Il passare del tempo non ha migliorato di molto la situazione, ma al giorno d’oggi è più facile che un videoclip sia piatto e noioso che ridicolo: la fissa di metterci dentro chissà cosa, l’esigenza di praticare l’eccesso o di provare a farsi notare anche con delle pure e semplici idiozie sembra non abitare più da queste parti.

Quella che vi presento è solo una campionatura infinitesimale dei videoclip orrendi e/o grotteschi che imperversavano su MTV ai bei tempi che furono. Cliccate sulle immagini se volete vederli in tutto il loro splendore…

 

 

HEART

 “Nothing At All”

 

 

Il tanto deprecato buon senso vorrebbe che fra una canzone e le immagini che l’accompagnano ci sia una certa continuità, almeno qualcosina che colleghi le parole del testo a quanto si vede. Ma raramente ciò accadeva, e nel videoclip girato per lanciare questa splendida canzone come singolo nel 1985, pare proprio che fra i versi e quanto la band fa non vi sia il minimo nesso. Howard Leese, Danny Carmassi e Mark Andes suonano i loro strumenti su scale e ballatoi in una scenografia che sembra ripresa pari pari dal palazzo in cui viveva J.F. Sebastian in Blade Runner, mentre le sorelle Wilson vagolano tra i suddetti ballatoi oppure in una camera da letto che hanno tutta l’aria di dividere, suggerendo quei pensieri maligni di incesto saffico che a suo tempo tanto fecero incazzare (giustamente) le sorelle e gli ispirarono il testo di “Barracuda”. Se Nancy mostra quella goffaggine vagamente sarcastica tipica di chi non sa stare davanti a una cinepresa ma tutto sommato si sta divertendo a improvvisarsi attore, Ann sembra di volta in volta sull’orlo di una crisi di panico, catatonica, sbronza o strafatta di Valium (per tacere di quel look da fattucchiera o invasata, che avrà terrorizzato più di un bambino incautamente lasciato davanti alla TV sintonizzata su MTV). E quella pantera nera che zampetta fra scale e corridoi per tutto il videoclip, cosa mai dovrebbe rappresentare? In teoria, un orrore del genere avrebbe dovuto affossare la canzone che pubblicizzava, invece “Nothing At All” salì fino al numero 10 della Billboard Hot 100, e contribuì non poco al totale dei cinque dischi di platino totalizzati dall’album in cui figurava.

 

 

JOAN JETT

“Dirty Deeds”

 

 

Qui, in apparenza, non c’è niente che non vada. Regia professionale, scenografia semplice ma accattivante, montaggio fatto come Dio comanda. Il problema è Joan, che per tutto il videoclip pare che dorma in piedi, e quando non sta sul palco con la chitarra in mano risulta ancora più inespressiva del solito, una specie di sonnambula tediata. Forse il problema sta anche nel fatto che c’è il tentativo di presentarla come bambola sexy, e da questo ruolo Joan – considerate le tendenze che le sono state attribuite (anche dalla collega Lita Ford) ma che lei si è sempre rifiutata di confermare o smentire, affermando (e non si può certo darle torto) che con chi va a letto sono soltanto affari suoi –  non poteva sentirsi molto presa, nonostante madre natura le avesse dato tutto quello che occorreva per sostenerlo.

 

 

DOKKEN

“Into The Fire”

 

 

Evitiamo di fare commenti sulla pettinatura che George Lynch sfoggiava nei primi tempi dei Dokken: in fondo, se un certo genere di musica venne battezzato da un ignoto umorista “hair metal”, un motivo doveva esserci… E, comunque, i capelli di George sono solo la ciliegina sulla torta in questo macello che prende tutti i cliché più grossolani dell’heavy metal anni ’80 e li riveste di una patina kitch, dalle ragazze anche loro chiomate fino al parossismo e truccate da streghe punk con unghie lunghe dieci centimetri al filo spinato su cui la band si esibisce in una corsa a ostacoli del tutto gratuita. Oddio, in questo videoclip tutto è gratuito rispetto al testo della canzone: che ci sta a fare quell’elicottero che gira su sé stesso nello sfondo? E il motoscafo? E le streghe punk? Le manone di gomma? E che performance ci offre Don, che alternativamente prende pose pseudo cazzute o frocesche, e ogni tanto lancia sguardi da pazzo strabuzzando gli occhi come se qualcuno gli avesse dato un calcio nei testicoli.

 

 

MOTLEY CRUE

“Looks That Kill”

 

 

Ridicolizzare il look che Nikki Sixx e soci esibivano al principio della carriera sarebbe non tanto come sparare sulla croce rossa: piuttosto, dimostrerebbe che dell’atmosfera che regnava all’alba dei Big 80s in ambito rock/metal negli USA non si è capito nulla: l’eccesso era non opportuno ma di rigore, e quell’aspetto da sopravvissuti del dopobomba glam ebbe il suo ruolo nell’attirare l’attenzione del pubblico. E allora, cos’è che non va in questo videoclip? Potremmo dire che hanno tentato – il regista o la band – di mettere assieme una storia ma poi hanno cominciato a strafregarsene. C’è una torma di belle gnocche che Nikki Sixx e compagni chiudono in un recinto, per farne usi che si lasciano all’immaginazione degli spettatori. Poi arriva questa sorta di Wonder Woman postatomica che prima libera le ragazze e ingaggia una specie di battaglia con la band (che però continua a suonare come niente fosse), poi si allontana con mosse da gatta in calore tirandosi dietro i quattro allupati che, privati del bottino, vogliono evidentemente rifarsi sulla supereroina, la quale sembra volerci stare prima con Vince Neil poi con Nikki e Tommy Lee, ma si svincola, zompa su un tetto, si ritrova circondata dai quattro aspiranti stupratori che le si fanno sotto, alzano un braccio verso il cielo, vengono circondati da una nuvolona di fumo bianco e, quando il fumo sparisce, la Wonder Woman è svanita. Resta il dubbio: l’hanno fatta sparire loro? Se n’è andata da sola? La gestualità da film muto esibita dalle gnocche e dalla Wonder Woman è comica più che grottesca, e tutto l’insieme ha sì qualcosa di onirico, ma di un incubo da cattiva digestione di cibi piccanti completata da una sbronza di vino fatto in casa. Che una sequela di immagini messa assieme in maniera così maldestra (o idiota, fate voi) abbia contribuito in maniera molto fattiva a spingere sulla Billboard 200 ‘Shout At The Devil’ (numero 17 di picco e quattro milioni di copie vendute negli USA) ci ricorda dei Big 80s tante cose che al giorno d’oggi preferiremmo dimenticare…