E’ cominciato tutto a metà anni ’80. Ad aprire la strada sono stati i Great White e gli ZZ Top, a spianarla i Tesla, a trasformarla in un’autostrada a sei corsie gli Aerosmith. L’hard rock ritrovava il suo padre spirituale, il blues. E da questo ritorno a casa traeva linfa vitale, forza ed un fascino sconfinati. I nomi che si fecero devoti di questa causa quasi non si contano: Kingdome Come, Cinderella, Badlands, Dirty White Boy, Salty Dog, Lynch Mob, Delta Rebels, Tora Tora, Little Caesar, Katmandu, Black Crowes... un fiume che pareva inarrestabile, ma è finito invece inghiottito anche lui dal terremoto che il grunge provocò sulla scena musicale americana nei primi anni 90. Nell’ HARD BLUES DEPARTMENT di AORARCHIVIA, tutte le recensioni dei dischi delle bands che furono protagoniste di questa magica stagione.

 

 

HARD BLUES DEPARTMENT

TORNA ALL'INDICE

METALLICA

 

 

  • LOAD (1996)

Etichetta:Mercury/Phonogram Reperibilità:in commercio

 

I Metallica nell’Hard Blues Department? Il webmaster è impazzito? Uhm... Semmai, avrà pensato qualche fan (anzi, molti, moltissimi fans)  in quel fatidico 1996, sono impazziti loro... Ma qualcuno aveva cominciato a porsi seri interrogativi a proposito della salute mentale dei Four Horsemen già nel 1990, all’indomani del ‘Black album’. Dov’era finita la furia, il rotolare selvaggio dei riff come un treno deragliato? Dov’era finito il thrash? Non l’avevano inventato proprio loro, quel genere, i riff dei Black Sabbath e dei Judas Priest sparati alla velocità dell’hardcore? Chi aveva sacrificato una porzione abbondante delle proprie cellule cerebrali fra le schegge impazzite di ‘Kill them all’ ed i labirinti elettrici di ‘And justice far all...’ (un titolo che, ammettiamolo, faceva già presagire la chiusura di un ciclo) non poteva certo ritrovarsi a proprio agio nella nuova architettura fatta di un rifferama pesante come il piombo, cadenzato, lento, implacabile. Ma il ‘Black album’ era pur sempre metal: un nuovo genere di metal, ma comunque metal. Si può tranquillamente affermare che gran parte di tutto quello che è venuto dopo il 1990 in questo campo discende in linea più o meno tortuosa da questo disco. Un capolavoro epocale, costato mesi e mesi e mesi di lavoro (non ricordo chi disse che Bob Rock era stato tanto tempo in studio con i Metallica che, quando tornò a casa, la sua figlia più piccola non lo riconosceva più...), forse il cammino finale di un’evoluzione, forse il frutto di un’intuizione nuova, chi può dirlo? Anni di tour sold out, vendite a camionate, valanghe di soldi... Okay, questa è storia, storia arcinota e masticata fino alla nausea.

Il dopo ‘Black Album’, naturalmente, si presentava come un sentiero lastricato di carboni ardenti. Senza più alcuna preoccupazione economica, completamente liberi, addirittura con una partnership paritaria con la loro casa discografica, i Metallica si trovavano nella condizione di poter fare semplicemente quello che volevano. Ma raramente quello che una band vuole coincide con le brame di coloro che ne comprano i dischi. Si poteva seguire il percorso Maiden ed AC/DC: registrare sempre lo stesso album cambiando qualche accordo qua e là, contando sul marchio, sfruttando l’immaginario che i fans gli avevano costruito attorno, ma James e Lars non avevano alcuna intenzione di diventare le caricature di se stessi, o di passare dallo status di musicisti a quello di totem adorati da tribù di fanatici. Purtroppo l’intransigenza verso monickers e generi del pubblico che segue l’heavy metal è un fatto assodato, come pure tutto quello strascico tribale di “valori” che ogni heavy band è costretta a tirarsi dietro: noi suoniamo per i kids, keep the faith alive, noi siamo i più potenti/veloci/zozzi del pianeta Terra, i discografici mi fanno una sega, amo solo il metallo, che bello passare la vita in tour, non vedo l’ora di correre al prossimo concerto... I Metallica avevano recitato anche loro la parte, e come avrebbero potuto fare il contrario e riuscire ad arrivare fin dove erano arrivati? Ma il punto è un altro: arriva il momento che: o ci credi anche tu, sinceramente, oppure ti stufi. O sei come Lemmy o Joey De Maio (diversissimi come atteggiamento, ma accomunati comunque dalla voglia di vivere un certo genere di esperienza musicale) oppure senti il bisogno di piantarla una buona volta con tutte quelle stronzate e concentrarti solo sulla musica. E quando si arriva a questo punto, raramente la musica resta la stessa che ti ha reso celebre. Per chi opera fuori dal campo heavy, in genere, non ci sono problemi: pensate agli U2, all’abisso che separava ‘The unforgettable fire’ da ‘Zooropa’, e alle vendite stellari che non gli sono mai mancate. Ma il metal, ripeto, è un altro paio di maniche. I Metallica sapevano di rischiare, e di rischiare grosso. Accettarono la scommessa, ma è difficile dire se l’abbiano vinta o perduta dal punto di vista della popolarità. Di sicuro, ‘Load’ fu un altro capolavoro, ancora più avanti del ‘Black album’, e forse ancora più influente presso il popolo dei musicisti (pensate solo a quanto gli devono i Nickelback).

La sola accusa che i fans potevano sensatamente rivolgere a questo disco era, semplicemente, che non si trattava di un disco metal. Chiamiamolo pure heavy rock, ma di metallurgia pesante come era comunemente intesa a metà degli anni ’90, ce n’è davvero pochina. Cosa c’è, invece, qui dentro? Il blues. Non certo quello levigato, stantio, vestito con le giacche di Armani che da anni ci propina Eric Clapton. Neppure quello fragile e crepuscolare di Willy De Ville, né la sua versione buffonesca, invasata e caricaturale imbastita da Jon Spencer, e neanche quello sofisticato e melodico degli Aerosmith. I Four Horsemen, da quei grandissimi musicisti che erano (e sono ancora oggi, nonostante ‘St. Anger’) si appropriavano del blues, piegandolo al proprio stile, alle proprie atmosfere, al proprio modo di suonare. ‘Load’ era la più intrigante proposta hard rock blues per il nuovo millennio alle porte, ottanta minuti di musica che, aldilà di qualche concessione modaiola (le suggestioni REM di “Hero of the day”, l’esercitazione in materia alternative di “Until it sleeps”) e gli indispensabili sguardi al passato ( “Mama said”, versione FM rock delle ballad metalliche del ‘Black album’, la formidabile “King nothing”, che sgorga da quella stessa fonte attraverso cui erano scaturite “Enter sandman” e “Sad but true”), riusciva nell’impresa di creare l’ennesimo standard, dimostrando ancora una volta che la materia grezza (il blues) poteva essere plasmata in forme nuove senza troppi sguardi al passato e citazioni forzate, anche se proprio con una citazione si comincia, dato che la cadenzata “Ain’t my bitch” impasta ad un tessuto heavy rock il riff della “Rock bottom” degli UFO, e quando Kirk Hammett parte con un assolo breve, mixato quasi in sordina, che si risolve in pochi accordi secchi di slide rugginosa, ogni dubbio sulla volontà della band di allontanarsi dai cliches del proprio (illustre) passato cede di schianto. “2 x 4” scende ancora più giù lungo il delta del Mississippi con un mid tempo rotolante ed una chitarra acida che sembra colare da un vecchio disco dei Blue Cher o dei Grand Funk, “The House Jack built” ha qualche spunto Sabbathiano alternando un passo felpato a momenti più nevrotici su cui va ad incastrarsi un assolo sporchissimo dilatato da un wah wah a manetta. “Bleeding me” galleggia tra il contrasto fra gli accordi liquidi di Hammond e chitarra ed il coro durissimo, tutto puro yankee rock americano anni ’70 con un finale sfregiato da un assolo al vetriolo. “Cure” è la scheggia più blues, un blues mutante dal tempo boogie violentato da chitarre alla carta vetrata, la stessa lingua - ma con accenti più marcatamente Sabbathiani - che parla “Poor twisted me”, con il suo feedback come una nebbia acida e la voce filtrata. L’heavy rock torna implacabile in “Thorn within” e “Wasting my hate”, rauche, fumose, corrosive, ma c’è tempo per omaggiare anche l’altra sponda dell’Atlantico, “Ronnie” è la versione anni ’90 della “L.A. Connection” dei Rainbow (da ‘Long live rock and roll’), un boogie ipnotico e acido, e a concludere, i dieci minuti di “The outlaw thorn” una cavalcata tenebrosa suggellata con un lungo assolo dal sapore psych.

'Load' fu un altro sfracello nelle classifiche di mezzo mondo, anche se non riuscì a ripetere i numeri del ‘Black album’, e peggio ancora fece ‘Reload’, replica in tono più heavy e meno blues che la band dette appena un anno dopo. I fans di più vecchia data, quelli che ancora piangevano la scomparsa di Cliff Burton, cancellarono in massa i Metallica dal proprio orizzonte musicale ( fra di essi non mancavano gli oltranzisti che ritenevano la band creativamente morta già con la fine di Cliff), ma si trattava comunque di una minoranza in fondo quasi trascurabile comparata alla marea di nuovi adepti del culto sparsi ai quattro angoli del pianeta. Il lungo periodo di stop in seguito alle crisi interne, l’abbandono di Jason Newsted e le sue dichiarazioni poco eleganti a proposito degli ex pards, l’ingresso di Robert Trujillo, i concerti con l’orchestra sinfonica, seguono o precedono il ritorno discografico, quel ‘St. Anger’ che nessuno, mi pare (neppure i Four Horsemen stessi, temo), è riuscito a spiegarsi in tutta la sua disarmante bruttezza: piatto, monocorde, noioso, inutilmente violento, con un suono che è eufemistico definire schifoso. Solo - mi auguro - un breve lampo di follia (propiziato, secondo alcune voci, da uno sconfortato James Hatfield e più o meno subito dagli altri, Bob Rock incluso), la quasi inevitabile macchia nero pece sulla altrimenti lucente - anzi, abbagliante - reputazione di una delle band più geniali nella storia dell’hard rock.

 

HARD BLUES DEPARTMENT

TORNA ALL'INDICE

TATTOO RODEO

 

 

  • RODE HARD - PUT AWAY WET (1991)

Etichetta:Atlantic Reperibilità:scarsa

 

I cambiamenti di sound, le conversioni ed i voltafaccia sono tra le rock bands roba all’ordine del giorno, è notorio. Certi gruppi hanno ottenuto successo proprio grazie al saltabeccare da un genere di moda all’altro, come i Cult. Accodarsi ai vincenti non è poi scandaloso se produce risultati artisticamente validi, e, insomma, se dei musicisti prendono la decisione di esplorare un ambito differente da quello prima frequentato, non si può per principio dargli dei mercenari, accusandoli di essersi venduti al miglior offerente per ramazzare un po’ di quattrini sfruttando i trend più in voga. Nel caso dei Tattoo Rodeo, poi, il passato era stato liquidato definitivamente cambiando addirittura nome. E che nome: questa band, un tempo, si chiamava White Sister...

Investiti di una sorta di eredità spirituale degli Angel grazie anche alla produzione che Gregg Giuffria aveva curato per i loro due album, i White Sister non avevano ottenuto grossi riscontri in termini di vendite, nonostante l’altissima qualità del materiale proposto ed un cantante straordinario. E così, dopo ben cinque anni di riflessione, decisero di voltare pagina. Cambiarono il tastierista, si rifecero il look e, dulcis in fundo, mutarono il monicker. Dall’ hard melodico dell’ultimo lavoro firmato White Sister, ‘Fashion by passion’, ad un hard rock eclettico ma con una decisa impronta blues, sulla scia dei Cinderella, dei Tyketto, dei Bon Jovi più root, dei Baton Rouge più bluesy di ‘Lights out on the playground’. E la classe della band risplendeva fulgida anche nel nuovo clima più rustico, producendo formidabili schegge di hard rock melodico dalle atmosfere cangianti. L’atout restava la voce superba del singer Dennis Churchill-Dries: un ruggito impeccabilmente intonato, caldo, espressivo, nitidamente pastoso, limpidamente rauco; una voce, insomma, che riusciva a coniugare gli opposti, a sposarli in maniera quasi miracolosa.

Strung out” apre il disco con una eloquente slide guitar ed un riffone mastodontico su cui Dennis ricama un refrain suggestivo, da pura cowboy song, ed è sempre all’insegna dell’acustico l’inizio di “Sweet little Vikky”, un hard melodico piccante ma sinuoso con un bridge che alterna esplosioni di keys al limite del pomp e intrecci voce/chitarra acustica. “Been your fool” e “Let me be the one” sono impeccabili ballad bluesy sulla rotta Aerosmith/Cinderella, ma c’è spazio anche per il boogie, contemporaneamente trucido e anthemico in “Everybody wants what she’s got”, fra i Dirty Looks e i Kix, con un testo che si risolve in un lungo elenco di grupies completo di indirizzo e specialità... E’ sempre un gran fraseggio acustico che apre “Ain’t no reason why”: ombre Zeppeliniane, andamento anthemico, sfumature pomp, un refrain fantastico. “Blonde ambition” è scatenata, fra i Firehouse ed i Babylon A.D., ma “Love shuffle” è la perfezione, la meta finale per chiunque vada alla ricerca del connubio ideale AOR-Blues: l’intreccio acustiche / piano / armonica / cori femminili  è esemplare, il coro da infarto! Un riff tostissimo apre “Shotgun Johnny”, clima anthemico alla Baton Rouge di ‘Lights out on the playground’, tastiere imponenti che cadono a valanga nel bridge. “Tell me why” è l’unico tributo al passato, una gigantesca power ballad dominata dalle keys. “One way love” richiama alla mente i Tyketto, ma anche dei Dirty White Boy in versione AOR, e si replica immediatamente con “Down” in un clima più drammatico e western. Chiude alla grande “Hard like a rock”, blues scanzonato, aerosmithiano fino al midollo.

Prodotto da Ron Bloom, con Paul Sabu nel ruolo di ingegnere del suono e corista, ‘Rode hard - put away wet’ arrivò troppo tardi, nel ferale 1991, mentre gli zozzoni del nord ovest calavano sulle spiagge della sunny California con lunberjack, ombrelli e i dischi dei Sonic Youth sotto il braccio. Scaricati dalla Atlantic a tempo di record, i Tattoo Rodeo si rifecero vivi solo nel 1995, con ‘Skin’, uscito per la belga Mausoleum (una label che negli anni ’80  raggiunse punte quasi sublimi di ridicolo pubblicando caterve di album dell’heavy metal più rozzo, primitivo e ingenuo che si possa immaginare), molto più root di ‘Rode...’. Dal 1998 si parla poi di un ritorno dei White Sister sotto l’egida della Frontiers, ma, ad oggi, tutto tace su questo fronte.

Nota finale: di recente ho presentato album che vengono venduti su eBay e siti equivalenti a prezzi da mutuo agevolato. Questo magnifico disco, invece, è reperibile con facilità per pochi dollari, e mai come in questo caso la quantità di moneta occorrente per entrare in possesso dell’oggetto è vistosamente sproporzionata al suo effettivo valore. Devo aggiungere altro?

 

HARD BLUES DEPARTMENT

TORNA ALL'INDICE

SALTY DOG

 

 

  • EVERY DOG HAS ITS DAY (1990)

Etichetta:Geffen Reperibilità:scarsa

 

Stavolta la prendiamo larga. Molto larga.

Il linguaggio della musica rock è universale: può piacere o meno, ma dal Sudafrica alle Aleutine, da Mosca a Buenos Aires, dal Tropico del Cancro a quello del Capricorno, non c’è individuo che non sappia quantomeno riconoscerlo. Dopo cinquanta e passa anni dalla sua nascita, il rock ha trovato terreno fertile in più di un paese: la Gran Bretagna, l’Irlanda, l’Australia, la Germania eccetera. Ogni terra d’adozione gli ha dato (o gli ha tolto) qualcosa. Ma (per quanto i critici nostrani si sforzino di dimenticarlo) è negli Stati Uniti d’America che la musica rock è nata: la sua giustificazione, il suo senso, va sempre cercato laggiù. Stringendo un po’ il quadro, possiamo dire che quando gli americani fanno rock, si rivolgono innanzitutto ai loro connazionali. Certe scelte che a noi non-yankees possono apparire incomprensibili, vanno interpretate secondo questo criterio. Bon Jovy è una star mondiale, tiene concerti anche in Giappone ed a Taiwan, ma ogni volta che scrive una canzone, la sua testa è nel New Jersey, non certo a Tokio o a Taipei. E tutti noi che non viviamo nel Kentucky o in California, non possiamo che guardare questo panorama da fuori, secondo una prospettiva che a volte ci consente di osservare con una lucidità ed un’acutezza che gli americani - immersi in quella realtà fino al collo - non hanno; o, viceversa, ci sbarra la strada ad una comprensione piena di certi fattori. Stringiamo ancora il quadro, riduciamolo alla nostra italietta canzonettara e neomelodica. A meno che non ci sia toccata in sorte una famiglia di rockettari convinti che dalla più tenera età hanno bombardato i nostri padiglioni auricolari con materiale sonoro ad alto voltaggio, il nostro panorama musicale è stato in genere circoscritto a ciò che veniva fuori da radio e TV. Tralasciando tipi come Little Tony e Bobby Solo, che ancora nei primi anni ’80 venivano presentati in TV (sopratutto dal Pippo nazionale, onnipotente ed indiscusso dominatore dei nostri pomeriggi domenicali) come succedanei di Elvis che tutta l’Europa ci invidia, e la sporadica comparsa di qualche meteora pop fuori dal coro, non c’è dubbio che tutti abbiamo dovuto subire una quasi inconsapevole educazione musicale all’insegna della “bella melodia”. D’accordo, ogni tanto viene fuori un cantautore che madre natura non ha proprio benedetto con corde vocali formidabili (pensate agli ululati striduli di Baglioni, alle cantilene robotiche di Max Pezzali o a quel gemito tremolante e asmatico che Carmen Consoli fa passare per una voce umana) ma non credo si possa mettere in discussione il fatto che nel nostro paese è sempre vivo il mito della “grande voce”. E’ come se tutti rimpiangessero segretamente i festival di San Remo degli anni ’50 e i talent scout sperassero sempre di scoprire da qualche parte il nuovo Claudio Villa. Insomma: nel nostro immaginario musicale collettivo –  che anche noi hard rockers abbiamo assorbito, ci piaccia o no l’idea – dominano gorgheggi da usignolo e/o maschi ruggiti baritonali. Forse ce l’abbiamo scritto nel DNA, chi può dirlo? E quando entriamo in contato con stili canori radicalmente diversi da quelli che il nostro imprinting ci ha abituato a considerare “buoni”, scatta qualcosa. In genere, qualcosa di negativo.

Fin dagli anni ’40, gli americani hanno una specie di culto per quei singer capaci di prodursi in high pitch vocals, di esprimersi in un falsetto acutissimo. Anche in Italia abbiamo avuto qualche esempio di band provvista di cantante in grado di esibirsi nella perfetta imitazione di una sirena antifurto, come i Cugini di Campagna, ma bisogna riconoscere che questo ensemble sapeva quantomeno incanalare le voci bianche in melodia orecchiabile. Jimmi Bleacher, il cantante dei Salty Dog, badava solo a far vibrare la propria laringe per sputare fuori note tanto acute da essere al limite degli ultrasuoni. Aveva tecnica, non stonava e possedeva un tono naturale più che buono. La sua era una scelta ben precisa, ed evidentemente sottoscritta dal produttore del disco in esame, il veterano Peter Collins. Se andrete a leggere i commenti su quest’album nel forum di un sito ben noto dedicato all’hard rock melodico, Heavy Harmonies, scoprirete che per le vocals di Bleacher si sprecano gli elogi: ed è quasi inutile sottolineare che praticamente tutti i posting vengono dagli USA.

E non è perché i miei cantanti preferiti si chiamano David Coverdale, Paul Sabu, Kelly Keeling, Paul Shortino, Jimmy Barnes, Ian Atsbury, Dennis Churchill, James Christian, che trovo questo modo di cantare insopportabile. In cima alle mie preferenze ci sono anche Robert Plant ed i suoi più validi epigoni (Jack Russell, Lenny Wolf, Midnight, Mark/Marcie Free), ma una cosa è cantare in falsetto, altra impostare il proprio stile vocale sull’emissione costante ed ossessiva di acuti spaccacristalli. Eppure, agli americani  (e qualche volta anche agli inglesi ed ai tedeschi) questo modo di cantare piace da matti. Niente mi toglie dalla testa che uno degli elementi che contribuirono al successo degli Slaughter fu proprio la voce superacuta di Mark, perché la proposta della band non aveva nulla che la facesse spiccare fra quella di altri gruppi che però non potevano contare sui servigi di un singer che poteva lanciare armoniche in linea con quelle che venivano fuori dalla gola dei castrati settecenteschi. Ed i The Darkness, con quel loro tiepido ed un po’ insipido collage di elementi rubati ai dischi di Queen e AC/DC - fuori tempo e probabilmente anche fuori luogo - a cosa mai devono il loro successo se non ad un frontman capace di raggiungere le ottave più alte che ugola virile possa sprigionare? Saranno tutti bravi quanto gli angloamericani vogliono, questi moderni Farinelli, ma il loro modo di cantare fa a pugni con il nostro modo di concepire il canto. E’ una barriera che per molti può essere invalicabile, ma che per gustare questa band vale la pena tentare di saltare. Almeno tentare. Se poi disponete di un buon equalizzatore (ovviamente, se fate parte di quella minoranza che ascolta ancora musica da un impianto stereo: non fatevi tentare da quello del Windows Media Player e simili, per carità...) potete provare a tagliare un po’ gli acuti micidiali di Bleacher lavorando di fino sulle frequenze più alte (almeno suppongo, dato che io, un equalizzatore simile – purtroppo – non ce l’ho).

Tra le tante bands che volgevano il proprio sguardo agli anni ’70, che percorrevano a ritroso quella strada aperta da Led Zeppelin, Free, Bad Company eccetera, i Salty Dog furono probabilmente quella che lasciava intravedere le prospettive più entusiasmanti, affrontando la materia con un piglio deciso, lontano da manierismi e citazioni, evitando qualsiasi compromesso con la scena melodic metal. Per usare una trita similitudine, apparivano come un magnifico diamante grezzo, ancora da tagliare, lucidare, privo di una forma definita ma già splendente di luce propria. La Geffen li scritturò immediatamente dopo averli visti suonare al mitico Whiskey-A-Go-Go, li spedì in Galles per registrare questo ‘Every dog has its day’, non lesinò dollari per promuoverli, ed il singolo “Come along” riscosse un notevole successo, bissato dal videoclip che la band girò per  Lonesome fool”. Quando sembrava che la strada per i Salty Dog fosse tutta in discesa, Bleacher (proprio lui...) mollò la band, che dopo aver provato ad inserire come nuovo singer Darrel Beach si disfece scomparendo nella nebbia.

Every dog has its day’ testimonia una genuina ricerca delle radici blues dell’hard rock, che trova la sua espressione più sincera nella coverizzazione del maestro Willie Dixon. Allo stesso modo dei Led Zeppelin, i Salty Dog prendono una delle sue canzoni, “Spoonful” (rifatta pure dai Cream sul loro disco di esordio, nel 1966), violentandola fino a renderla quasi irriconoscibile: l’armonica impazzita si contrappone ad una ritmica degna dei Blue Cher su cui Bleecher lancia acuti da traforare la scatola cranica... I Led Zeppelin sono – ovviamente – omaggiati spesso e volentieri dalla band: nel riff funk di “Come Along”, che pare davvero spuntata come per magia dalle sessions di uno dei due primi album della band di Jimmy Page; nel clima rovente di “Heave hard (she comes easy)” e “Where the sun don’t shine”. “Cat’s got nine” richiama in qualche modo gli AC/DC prima maniera, “Slow daze” gli ZZ Top più sporchi degli anni ’70. “Just like a woman” rotola via tra acustiche e banjo, un country & western senza concessioni alla melodia facile, mentre l’altra ballad (molto power) “Sacrifice me” ha qualcosa dei Guns’N’Roses, come il rhythm & blues “Lonesome fool”, con il banjo a dare il tocco root. “Ring my bell” e “Keep me down” piaceranno ai patiti dei Bulletboys, hard blues massicci, bellissimo il riff di “Keep me down” dove Bleecher la pianta finalmente di fare l’imitazione di un trapano a batteria e canta da essere umano. Precede questa canzone “Sim Sala Bim”, quaranta secondi di chitarra elettrica orientaleggiante su un tappeto quasi rumoristico. “Nothin’ but a dream  chiude l’album in un clima convulso, quasi ti aspetti di vedere le tonsille di Bleecher schizzare sanguinanti dalle casse, ma con un grande assolo di slide guitar.

Se avete amato Badlands (in particolare quelli di ‘Voodoo highway’), Bulletboys, i Guns’N’Roses più root, tutto il grande rock settantiano blues oriented, ‘Every dog has it’s day’ può divenire una delle vostre priorità. Possono creare qualche difficoltà nell’approccio la registrazione scarna, il suono essenziale, e – sopratutto – la voce di Jimmi Bleacher. Se poi il suo modo di cantare riesce di vostro particolare gradimento, sarete in paradiso.