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A essere fan di Paul Rodgers, senza dubbio si fa una vita agra. La frequenza media delle uscite è circa una ogni sette - otto anni, e il più delle volte si tratta di live o cover album. Per avere un disco di studio con del materiale nuovo e inedito occorre aspettare molto di più: l’ultimo uscì nel 1999, e parliamo ovviamente di ‘Electric’. Ci sono spiccate differenze tra quello e ‘Midnight Rose’? Sostanzialmente nessuna a livello di sound, e va benissimo così. Abbiamo invece qui arrangiamenti più ricchi e densi, una produzione sofisticata (dietro il banco del mixer stavolta c’è nientemeno che Bob Rock) e una backing band di grande sostanza (le parti di chitarra sono dovute a Ray Roper e Keith Scott). “Coming Home” apre le danze a tempo di boogie, “Photo Shooter” è (testo a parte) una tipica cavalcata da film western mentre la title track si rivela una ballad dai riflessi country che sale in un crescendo lento e gentile. “Living It Up” è propulsa da un riffone secco e rauco di chitarra doppiato dall’Hammond, una canzone maschia che fa più Led Zeppelin che Bad Company, con una bella virata funk prima del coro, “Dance In The Sun” tiene fede al titolo essendo una ballad solare, elettroacustica, zingaresca. Classicissime le atmosfere in chiaroscuro di “Take Love”, con le sue belle ombre southern, ed è di nuovo un’epicità da film western a caratterizzare “Highway Robber” (e qui il testo si sposa perfettamente alla musica). Gran finale con “Melting”, bluesy, fascinosa e incantata prima di infiammarsi nel refrain… Ed è tutto qui: otto canzoni, poco più di trentadue minuti la durata complessiva. Che siano grandi canzoni, arrangiate e prodotte magnificamente, è una magra consolazione: era da quasi un quarto di secolo che aspettavamo materiale nuovo e otteniamo appena una mezz’ora di musica… Ma per chiunque ami il sound degli ultimi Bad Company con Paul al microfono e quanto lui ha fatto in solitario, ‘Midnight Rose’ è comunque manna dal cielo.
Nel 2020, Robert Hart firmò con ‘Pure’ un trattato di AOR di gran finezza e qualità (lo recensii per Classic Rock), in cui echi di Distance e Bad Company venivano sapientemente armonizzati dalla produzione de luxe di Tommy Denander (anche alle chitarre) e Steve Overland. Purtroppo, in questo appena edito ‘Circus Life’ non c’è più Tommy Denander, ma è rimasto Steve Overland, che ha convocato vari personaggi del suo giro (Steve Morris, Steve Mann, Chris Childs, Harry James più Robert Sall dei Work Of Art) per incidere qualcosa che si rivela niente più che un disco degli FM (o magari degli Shadowman) con Robert Hart al microfono. In sé, questo non sarebbe poi un problema, se non fosse che gli stessi FM sono anni che pubblicano sempre lo stesso album cambiando giusto i testi delle canzoni e qualche nota qua e là… Insomma, ‘Circus Life’ finisce per abbondare soprattutto di rifritture del repertorio FM (quante volte abbiamo sentito “That Was The Day” e “The Time Of Our Lives” con altri titoli e una voce morbidona che ci canta sopra?) e qualche acuto (le keys AOR e il bel feeling drammatico alla Bad Company di “Stone Heart”; la vivacità ben punteggiata dalle tastiere in “I’ll Take The Bullet”; “Too Much Time On My Hands”, sempre reminiscente dei Bad Company, morbida e AOR nelle strofe, impetuosa nel refrain) non alza più di tanto il livello di un album in cui la sensazione di già sentito permane dal principio alla fine e – purtroppo – non è affatto una sensazione ma un dato di fatto. Naturalmente, se degli FM siete fan assatanati e la voce rauca che qui sfoggia Robert Hart vi sta bene, accoglierete il prodotto discografico in esame con piacere. Ma chi non ne può più (come il sottoscritto) di ascoltare album fotocopia, non credo che a dicembre piazzerà ‘Circus Life’ in cima alla propria lista dei dischi dell’anno.
Do per scontato che i miei fedeli lettori sappiano chi è Popa Chubby (comunque, per chi non ne avesse mai sentito parlare, specifico: uno dei chitarristi rock blues più autorevoli degli ultimi trent’anni), ma non è scandaloso supporre che ignorino chi sia Freddie King: chi vuol sapere tutto o quasi su di lui può seguire il link alla scheda di Wikipedia (alla pagina in inglese, dato che quella in italiano è brevissima e molto sommaria). Qui mi limito a ricordare che Freddie King (morto sostanzialmente di stravizi ad appena 42 anni nel 1976) è stato uno dei chitarristi più influenti nella storia del blues (e non solo: Eric Clapton possiamo quasi considerarlo un suo figlioccio, ed è uno dei pochi chitarristi blues entrato nelle Hall of Fame sia del rock che del blues). Popa ha selezionato undici dei suoi brani più celebri suonandoli con una manciata di ospiti prestigiosi (fra cui Joe Bonamassa, Mike Zito, Eric Gales e Albert Castiglia) e un piglio (come sempre) decisamente rock. Apre le danze “I’m Going Down”, incendiario blues texano (quasi una riscrittura del classicissimo “Palace of The King”, a onor del vero) che vede Joe Bonamassa duettare (o duellare?) con la chitarra di Popa: purtroppo – è quasi la regola quando partecipa a un brano come ospite – gli interventi di Joe non sono niente di speciale, ma aggiungono comunque sugo al pezzo. Molto meglio fa Albert Castiglia nello slow piccante “Love Her With a Feeling”, proponendo un bell’assolo in crescendo, mentre funk e soul colorano “My Credit Didn’t Go Through”, con Popa ed Eric Gales che si alternano al microfono e cuciono sulla canzone assoli fatti di note lunghe e tirate. Molto soul in “Big Legged Woman” con la chitarra di Christone “Kingfish” Ingram che segue la melodia del refrain, poi Mike Zito trova una perfetta intesa con Popa su “She’s a Burglar”, è difficile districare gli interventi dell’uno da quelli dell’altro su questo slow notturno e drammatico arricchito da una bella sezione fiati. “Hideaway” è uno strumentale, brano iconico e più famoso del Nostro, riproposto con cura quasi filologica da Popa e Arthur Neilson: impagabile collage di elementi ripresi da canzoni di Hound Dog Taylor e Jimmy McCracklin, con uno spruzzo del “Peter Gunn Theme” di Harry Mancini. Seguono altri due brani strumentali: “The Stumble”, col suo classico shuffle dondolante, e “San Ho Zay”, dove il dialogo tra le chitarre di Popa e Arthur Neilson è denso di sfumature ammalianti. Popa interpreta da solo “Pack It Up”, molto r&b, grazie anche ai fiati e ai cori femminili, mentre di nuovo Neilson lo affianca su “Heads Up”, ancora uno strumentale in cui spicca il bel contrasto fra la chitarra aggressiva di Popa e quella più morbida dell’ospite. Chiude “Same Old Blues”, slow robusto e decisamente soul con l’apporto di pianoforte e organo e la chitarra di V.D. King. Tributi e celebrazioni di regola mi lasciano freddino (più spesso, di ghiaccio), ma ‘I Love Freddie King’ è una validissima riproposizione del repertorio di un artista che il popolo rock conosce (se lo conosce) poco e male: lode a Popa Chubby che lo ha assemblato con amore e devozione, perpetuando il ricordo di uno dei più grandi chitarristi blues di tutti i tempi.
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