HARD BLUES DEPARTMENT

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COMPANY OF SNAKES

 

 

  • BURST THE BUBBLE (2002)

Etichetta:SPV/STEAMHAMMER Reperibilità:buona

 

Possiamo definire i Company of Snakes una band surrogato, sullo stesso genere dei Bulletboys (per saperne di più, seguite il link)? A prima vista no, dato che qui suonavano la bellezza di tre membri dei vecchi Whitesnake (la band che si cercava di surrogare). Eppure quel moniker puntava ad un bersaglio preciso, i fan della band di David Coverdale, in particolare quelli che avevano pianto lacrime amare per lo smantellamento della vecchia line up ed il trasloco a Los Angeles, quelli che continuano a preferire ‘Ready & Willing’ a ‘1987’. Un mercato magari piccolo e concentrato tutto nel vecchio continente ed in Giappone, ma nient’affatto trascurabile, e con questi chiari di luna, avranno pensato Bernie Marsden, Micky Moody e Neil Murray, vale la pena esplorarlo. Arruolati Don Airey come tastierista e John Lingwood come batterista, c’era il problema di trovare un cantante che potesse recitare il ruolo di controfigura di chi sappiamo. Dopo brevi permanenze di Robert Hart (Bad Company) e Gary Barden (MSG), venne infine reperito un cantante che, dal punto di vista vocale, si prestava ottimamente alla parte, Stefan Berggren, ex singer dei bravi Snakes In Paradise. Dato che il primo tentativo a nome The Snakes non era andato poi così bene (disco pubblicato solo in Giappone e una scelta completamente sbagliata del cantante, Jorn Lande), la neonata compagnia decise per una partenza soft, con un tour (con Gary Barden ancora dietro il microfono) ed un disco più o meno live (le vocals originali di Gary Barden furono rimpiazzate da altre cantate in studio da Stefan Berggren) uscito nel 2001, tutto all’insegna del repertorio Whitesnake ante ‘1987’. E i riscontri dovettero essere significativi dato che l’anno successivo i Company of Snakes entrarono di nuovo in studio per registrare del materiale stavolta inedito e originale.

Materiale che era ovviamente in linea con quanto gli Whitesnake avevano fatto fino al 1983, con qualche (piacevole) intrusione AOR di marca Snakes in Paradise. “Ayresome Park” apre (e chiude) l’album con una performance solitaria di Micky Moody alla chitarra acustica, “Labour of Love” ingrana la marcia con un pigro ritmo di boogie, e segue sulla stessa falsariga “Ride, Ride, Ride / Run, Run, Run”, con la sua lenta urgenza blues, e a seguire, la title track, un funk sinuoso che richiama decisamente gli Snakes in Paradise. Dopo questa partenza non proprio furibonda il clima si fa più elettrico con “Sacrificial Feelings”, riff secco e zeppeliniano e melodia “eroica” alla “Here I Go Again”. “What Love Can Do” è una power ballad con un certo smalto AOR e di nuovo qualcosa della ex band di Stefan Berggren, adorna di una bella coda strumentale. Blues e ancora blues per “Little Miss Happiness” (potrebbe passare per una outtake ‘Saints And Sinners’) impreziosita da un bel dialogo fra le chitarre di Bernie e Micky nel finale. Decisamente Snakes in Paradise è la pregevole power ballad elettroacustica “Hurricane”, su cui Bernie Marsden ricama uno struggente tema melodico spagnoleggiante ed un assolo breve e passionale. Si alza la temperatura con “Kinda Wish You Would”, secca e martellante ma con un refrain suadente, la slide di Micky Moody sugli scudi e assoli di pianoforte e Hammond (ma suonati da chi? Don Airey pare che avesse già lasciato la band. Forse Adam Wakeman?). La nostalgica “Days to Remember” è quasi un omaggio ai Bad Company con le sue fate morgane country & western, cantata oltretutto da Bernie Marsden con la sua voce simil Paul Rodgers. Di nuovo reminiscenze Snakes in Paradise per l’hard blues da saloon “Back to the Blues”, l’incalzante “All Dressed Up” si srotola lungo un bel riff avvolgente, “Can’t Go Back” alterna parti morbide (molto “Is This Love”) ad un ritornello più ispido e chiude “She”, un ruvido riff AC/DC spezzato da tonificanti scoppi di melodia.

Purtroppo, questo bel disco venne accolto con indifferenza, e dal vivo le canzoni di 'Burst The Bubble' riscossero consensi molto scarsi. Gli show accusarono un calo verticale degli spettatori, perché la band era evidentemente considerata dal suo pubblico ancora meno di un surrogato, solo un juke box vivente destinato alla riproposizione zelante e filologica del materiale degli Whitesnake. Capita l’antifona, Bernie e compagni tornarono sui propri passi con l’ennesimo nuovo monicker (M3) che fino ad oggi ha prodotto due DVD live, testimonianze di show impeccabili ma sterili nel loro ripetere all’infinito le vecchie canzoni. Ma questo, pare, è tutto quello che la gente chiede agli incolpevoli M3: e il cliente, da che mondo è mondo, ha sempre ragione…

 

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SHADOWMAN

 

 

  • WATCHING OVER YOU (2011)

Etichetta:Escape Reperibilità:in commercio

 

Dopo il ritorno discografico degli FM, gli Shadowman rischiavano seriamente di apparire niente più che una costola della band numero uno di Steve Overland, anche in virtù della sempre più marcata identità di sound manifestata sull’ultimo ‘Ghost in the mirror’. Come potevano evitare dunque gli Shadowman – considerando anche l’eccellenza di ‘Metropolis’ – di fare la figura dei parenti poveri degli FM? Distinguendosi in qualche modo nel songwriting ma questo non è accaduto, tutt’altro: ‘Watching over you’ è addirittura il disco degli Shadowman meglio sintonizzato sulla lunghezza d’onda della band numero uno. Le differenze, però, ci sono, e tutt’altro che lievi o irrilevanti e si concentrano tutte nella persona di Steve Morris, che tramite il suo notevolissimo chitarrismo, il gusto raffinato negli arrangiamenti e la sapienza nella produzione riesce a ribaltare il quadro, portando alla nostra attenzione una band che non è affatto un parente povero ma si presenta invece come una sorta di cugino elegante  e sofisticato degli FM, in grado in più di una circostanza di esprimersi in autonomia, senza fare obbligatoriamente il verso al congiunto più famoso.

Across the Universe” apre il disco, dinamica, movimentata, con un certo flavour anni ’70 che rimanda ai Bad Company ed un assolo diviso tra organo Hammond e chitarra, su “Renegades” spicca il contrasto fra il riff serrato sotto le strofe e quello cupo e sinuoso che scandisce il refrain, “Cry” è una ballad molto soul rilegata da una chitarra luminosa e cristallina, mentre la title track è caratterizzata da un arrangiamento variegato, con il tema melodico condotto in pari misura dalle keys e dalla chitarra ed un refrain lineare, anche qui l’assolo se lo spartiscono l’Hammond e la chitarra. Senza pretese “Are You Ready”, una sorta di simpatico slow boogie blues che precede “Suzanne”, con la sua bella melodia che nel ritornello si apre ad un classico tema FM. E le atmosfere della band numero uno la fanno da padrone anche su “Waiting for a Miracle”, col suo ritmo stuzzicante e tremendamente cool prima di “Stop Breaking This Heart of Mine”, una raggiante ballad elettroacustica. Il top dell’album si intitola “Heaven Waits”, fascinosa e arcana, poggia su un riff esotico e zeppeliniano che scivola su tappeti di tastiere e chitarre acustiche. “Whatever It Takes”, invece, è un hard melodico molto FM senza nulla di particolare: sarei quasi tentato di definirla un filler. Altra musica su “Justify”, col suo bel riff cattivo e grattante, e la conclusiva “Party Is Over”, strepitosamente alla Santana nel suo intreccio di chitarre acustiche ed elettriche.

Caldamente consigliato a tutti.

 

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TORA TORA

 

 

  • REVOLUTION DAY (2011)

Etichetta:FNA records Reperibilità:buona

 

Nella recensione che qualche anno fa scrissi di ‘Wild America’ (per leggerla, seguite il link), riferivo anche della esistenza di un terzo album inedito dei Tora Tora, ‘Revolution Day’, auspicandone la pubblicazione da parte della Cherry Red, l’etichetta che aveva ristampato ‘Wild America’. Nel catalogo della label inglese, però, di questo disco continuava, dopo sei anni, a non esserci traccia. ‘Revolution Day’ è invece stato pubblicato (finalmente) dall’americana FNA Records, etichetta che con i Tora Tora aveva già avviato una proficua collaborazione fatta di tre album di demo e alternate takes e due dischi del cantante Anthony Corder. Purtroppo, la FNA non ha distribuzione in Europa, almeno al momento in cui scrivo, e il modo più semplice per entrare in possesso di ‘Revolution Day’ (o qualunque altro disco della label, che ha un catalogo interessante) è comprarlo direttamente sul sito web della casa discografica (fruendo anche del non trascurabile vantaggio del dollaro debole) oppure scaricarselo tramite Amazon USA (e considerato che nel booklet del mio CD c’è  solo qualche foto della band e l’elenco delle canzoni – niente lyrics, niente note, niente di niente… – conviene decisamente rivolgersi al download, che consente di risparmiare parecchio).

Questo disco girava già come bootleg nel web da qualche anno, ma con una qualità audio infima, mentre l’edizione FNA è stata fatta con i nastri originali registrati dalla band nel 1994, poco prima che il loro contratto venisse stracciato per motivi che si possono facilmente immaginare considerato il periodo storico, ed ha una resa fonica impeccabile.

Dopo l’intro di acustiche zeppeliniane ed armonica, la title track entra al ritmo di un basso pulsante, con un riff massiccio a cui succede un bel refrain molto Lynch Mob ed un assolo sporco e distorto. La grande “Mississippi Voodoo Child” è un hard blues ispido e veloce dal classico shuffle, tramato di stuzzicanti linee melodiche costantemente contrappuntate dall’armonica, mentre l’altrettanto superba “Candle And The Stone” è una ballad un po’ soul  fascinosa e malinconica, perfetto impasto di chitarre acustiche ed elettriche con appena una bava di Hammond, lacerato da un assolo di slide satura e sporca. Semplice ed intensa “Blues Come Home To You”, un hard bluesy tinto di street rock, con l’armonica di nuovo a rifinire. “Time And The Tide” è una scheggia incantata, solare eppure tenebrosa, zeppeliniana ed elettroacustica, “Shelter From The Rain” una power ballad in crescendo che alterna momenti delicati ad altri più abrasivi sui panneggi dorati dell’organo Hammond. Lo street rock torna protagonista con “Living A World Away”, basata su un riff grandioso, implacabile e graffiante, che lascia spazio ad un intreccio di sciabolate elettriche prima di ricomparire nel ritornello e fare da rampa di lancio per un assolo di slide super amplificata. E che classe ha “Rescue Me”, quasi una power ballad, che comincia con acustiche zeppeliniane e prosegue elettrica e bluesy. Grande ritmo con il riff sfrigolante e nervoso di “Little Texas” prima di “Memphis Soul”, hard blues su cui si incrociano parti lente e quasi pigre con vivaci scoppi di melodia sottolineati da una sezione fiati. Anche la grandissima “Me And You” parla la lingua del blues hard rock, procede in crescendo su un riff dilatato che si scioglie in caldi arpeggi acustici e pure nello stesso ambito si colloca il peso massimo del disco, “Out Of The Storm”, con i suoi riff saturi che scandiscono un mid tempo micidiale ed una slide sporchissima. A chiudere, un vero e proprio brano nascosto, uno splendido strumentale per chitarre acustiche ed elettriche e pianoforte, sognante e malinconico.

Revolution Day’, in definitiva, è vera e propria lost gem sbucata dal passato. Un sentito grazie a quelli della FNA che l’hanno resa disponibile a tutti. E (da parte mia, almeno) una bella sfilza di maledizioni ad un’industria discografica che ha ammazzato una band grandiosa solo perché gli zozzoni di Seattle potessero vendere i loro dischi senza essere disturbati da nessuno.

 

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WARRANT

 

 

  • ROCKAHOLIC (2011)

Etichetta:Frontiers Reperibilità:in commercio

 

Tutto si può rimproverare ai Warrant salvo il vezzo di inondarci di dischi. Sono passati la bellezza di cinque anni da ‘Born Again’, che li aveva rimessi vigorosamente sulla carreggiata dall’hard rock melodico anche grazie all’apporto nel songwriting di Jamie St.James che era andato ad occupare il posto dell’ormai stanco e sfatto Jani Lane (che ci ha lasciato ad agosto di quest'anno, pace all'anima sua). Ma Jamie ha salutato i suoi nuovi pards per rimettere in piedi quell’altra formidabile entità del rock melodico che sono i Black ‘N Blue, così i Warrant hanno arruolato l’ex Lynch Mob Robert Mason per incidere questo ‘Rockaholic’, prodotto niente meno che da sua eccellenza Keith Olsen. ‘Born Again’ era un buon disco, in cui le influenze del più classico suono dei Black ‘N Blue si facevano sentire abbastanza vigorosamente, al punto che in certi momenti non sapevi davvero se stavi ascoltando i Warrant o una nuova release della band di ‘Without Love’. Ma i Warrant ce l’hanno mai avuto davvero un loro sound? Dopo tutto, hanno cambiato pelle album dopo album, dal party metal stile Poison del primo disco, all’hard melodico scanzonato ma di ampio respiro del capolavoro ‘Cherry Pie’, per passare all’heavy rock ringhioso di ‘Dog Eat Dog’… ‘Rockaholic’ vibra prevalentemente sulle frequenze dello street metal losangeleno meno trucido, Robert Mason ci mette molto del suo (le suggestioni Lynch Mob non mancano), e il risultato finale è di altissimo livello, anche (sopratutto?) in grazia della produzione impeccabile di sua eccellenza (e del mixaggio di un altro notabile dei bei tempi che furono, Pat Reagan).

Sex Ain’t Love” ci catapulta subito sul Sunset Strip, puro metal californiano dal ritornello meravigliosamente sleaze ed un riff iniziale che fa molto ultimi Whitesnake, mentre “Innocence Gone” è aperta da un intreccio di chitarre pulsanti e propone il classico sound era ‘Cherry Pie’ in un contesto più ruvido, con una linea melodica robusta ed elettrica. Il pregevole street rock “Snake” sta in equilibrio su un bel riff altalenante, si procede sull’asse voce/chitarra in un gustoso impasto di Led Zeppelin e Van Halen, “Dusty’s Revenge” è invece un favoloso hard rock da film western, polveroso e galoppante, caratterizzato da un magnifico refrain. “Home” e “What Love Can Do” sono power ballads: la prima molto classica, un tessuto di chitarre acustiche ed archi lacerato da vigorose frustate elettriche, un po’ accademica ma gradevole; la seconda, grandissima, ritmata da un bel riff, elettrica e californiana, movimentata da un bell’arrangiamento variegato. “Life’s a Song” innesta una melodia decisamente Bon Jovi su un robusto telaio elettrico, “Show Must Go On” è un serratissimo metal californiano con un tagliente coro anthemico, l’eccelsa “Cocaine Freight Train” è beffarda, adrenalinica, sleaze, spezzata da un bridge pigro e notturno sporcato da un’armonica minacciosa e sinistra, in cui si incunea un assolo veloce e scoppiettante. Ancora una power ballad con “Found Forever”, archi, chitarre acustiche ed elettriche ed un refrain ispirato alle cose migliori dei Nickelback incrociate con il più classico sound della band. Lo street metal torna a dettare legge con la superba “Candy Man”, sinuosa, sexy e notturna e la stratosferica “Sunshine”, più solare ma nello stesso tempo più inquietante. C’è tempo per un’altra ballad – e che ballad! – “Tears in the City”, con la sua melodia fascinosa che veleggia sul tappeto di tastiere e chitarre prima della chiusura con “The Last Straw”, veloce e cattiva, che si apre alla melodia nel coro pur restando sempre ispida e metallica.

Molto difficile che in ambito hard rock americano l’anno in corso ci riservi un’uscita di qualità superiore rispetto a ‘Rockaholic’: da avere assolutamente.

 

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PAUL RODGERS

 

 

  • MUDDY WATER BLUES (1993)

  • NOW (1997)

Etichetta:'Muddy Water Blues': Victor

                'Now': Velvet Records

Reperibilità:buona

 

Della strepitosa qualità della voce di Paul Rodgers ho già scritto nel pezzo dedicato ai Bad Company prima edizione ed ai The Firm (per saperne di più, seguite i link). Ma the voice ha dato molte altre prove della propria valentia, non solo come cantante, ma anche come compositore, e questi due dischi ne sono un esempio. Il primo è a tutti gli effetti un cover album, dedicato alla musica interpretata da Muddy Waters (per avere notizie su questo bluesman che ha avuto un ruolo tutt’altro che minore nella storia della musica rock, potete leggere la sua bio inclusa nella recensione dell’album ‘L.A. Blues Autorithy’); l’altro, uno dei troppo rari lavori solisti che Paul ci ha regalato nel corso degli anni, lavori oltretutto sempre poco pubblicizzati e spesso editi da etichette indipendenti: è reperibile sia come singolo CD, sia accoppiato ad un live del 1995, con il titolo ‘Now and Live’.

Muddy Water Blues’ è un tributo nel segno dell’hard rock che Paul assembla facendosi coadiuvare da una band eccezionale ed una faraonica legione di ospiti. A Jason Bonham (batteria), Pino Palladino (basso) e Ian Hutton (chitarra ritmica, ex Bonham), si aggiungono come solisti Buddy Guy, Trevor Rabin, Brian Setzer, Jeff Beck, David Gilmour, Gary Moore, Slash, Brian May, Neil Schon e Richie Sambora, per non parlare di Jimmie Wood all’armonica e David Paich alle tastiere. Dodici canzoni di o rese famose da Muddy Waters ed una composizione originale, “Muddy Water Blues”, presentata in doppia veste, acustica (con Buddy Guy alla solista) ed elettrica (un Neal Schon divino), uno slow pieno di soul ed atmosfera. Ma anche la storica “Good Morning Little School Girl” viene proposta due volte, con arrangiamenti ed interpretazioni radicalmente differenti: quella che vede impegnato Jeff Beck è lenta, notturna, maliziosa, con la chitarra di Jeff che tesse trame graffianti e luminose, mentre la versione con Richie Sambora è un hard rock ritmato e agile che vede il chitarrista dei Bon Jovi sfoderare un fraseggio degno del miglior Stevie Ray Vaughan. “Louisiana Blues” sono le classiche dodici battute opportunamente elettrificate, mentre in “I Can’t Be Satisfied” la sei corde di Brian Setzer inietta senza sorpresa una piacevole dose di Rockabilly. “Rollin’ Stone” si risolve in un mid tempo lento e sensuale, altro superclassico con “(I’m Your) Hoochie Coochie Man”, caratterizzata dall’alternanza tra la chitarra limpida di Steve Miller e l’armonica, con un’interpretazione molto misurata di Paul. Dopo una tosta “She’s Alright” c’è l’intensità di “Standing Around Crying”, uno slow che David Gilmour onora con un bellissimo assolo. Anche Slash si cala benissimo nella parte del chitarrista blues su “The Hunter”, secca e aggressiva, mentre Gary Moore regala a Paul un solo spettacolare e veloce nel gran crescendo del mid tempo “She Moves Me”. Tocca poi a Brian May ricamare un intervento breve e divertito nella swingante “I’m Ready”, mentre Jeff Beck torna per la lenta, pesantissima, rotolante “I Just Want To Make Love To You” (confrontatela con la versione metallica, anthemica e sculettante che ne dettero i Cold Sweat). Ombre funk su “Born Under a Bad Sign”, con le carezze dell’organo Hammond ed i trilli del pianoforte e la chitarra di Neal Schon ruvida quanto basta: immensa.

Now’ è invece fatto interamente di composizioni originali, una vera festa per tutti gli amanti dell’hard rock bluesy anni ’70, con una produzione ed una qualità audio però di prim’ordine: bisogna sottolineare la scelta di Paul di avere belle timbriche, suoni ricchi e potenti, senza ricercare quell’effetto vintage che tanti, ieri ed oggi, cercano di dare al proprio sound, più che altro (temo) per sopperire alla mancanza di ispirazione o coprire i “copia & incolla” più plateali. Lo splendore di “Soul of Love”, con la sua melodia maschia e fascinosa, apre ‘Now’ a ritmo di Bad Company, “Overloaded” è un funky segnato da uno scatenato assolo tutto wah wah, “Heart of Fire” è una tranche melodica che mescola cristalline punteggiature di chitarra ed un riffing ruvido e distorto. “Saving Grace”: la voce di Paul ed una chitarra che ruggisce: opposti che misteriosamente si completano e si fondono nel segno dei Free. “All I Want Is You” è una fantastica ballad che inizia soffice ed incantata, si infiamma tramite una chitarra rimbombante, con un Paul – tanto per cambiare – da urlo. Ancora un classico hard bluesy stile cattiva compagnia, “Chasing Shadows”, poi Paul si lancia nel soul blues con “Love Is All I Need”, impreziosita da un coro di voci femminili. Tornano i Bad Company, quelli degli ultimi album, dal suono un po’ country & western, prima con “Nights Like This”, acustiche delicate e intense su cui scivolano chitarre elettriche robuste senza mai diventare aggressive, poi con la grande “Shadow of the Sun”, che potremmo definire una versione riveduta e corretta della sempiterna “Evil wind”. Un’altra divina ballad si rivela “I Lost It All”, malinconica, notturna, si impenna nella parte centrale con un assolo selvaggio ed un bridge tempestoso e a chiudere ancora Bad Company a più non posso con “Holding Back the Storm”, pianoforte, chitarre imponenti per una galoppata fra praterie sconfinate, tanto per ricordarci da chi i Tangier di ‘Four Winds’ hanno imparato la lezione.

Due dischi da avere anche solo per capire quale differenza c’è tra un bravo cantante (devo fare nomi?) ed un grande cantante.