HARD BLUES DEPARTMENT

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BETH HART BAND

 

 

  • IMMORTAL (1996)

Etichetta:Atlantic Reperibilità:in commercio

 

Chissà quante volte vi sarà capitato, leggendo la recensione di un disco, di imbattervi in quella frase fatta o locuzione o modo di dire: “canzone che vale l’acquisto”. Anch’io devo averla usata, qualche volta. Si adotta, in genere, per etichettare un brano che si eleva nettamente per valore da quelli che lo precedono o lo seguono, e compare (o dovrebbe comparire) più spesso nelle recensioni di dischi poco significativi: un segnale, una bandierina infilzata sul pezzo che si distingue fra il grigiore generale, che spicca in modo clamoroso, magari suscitando al primo ascolto anche una certa sorpresa: che ci fa una canzone così in un disco simile? Come una montagna che si staglia tra le ondulazioni di una prateria piatta e monotona. Ma una ed una sola canzone vale davvero l’acquisto di un intero album? La domanda si presenta, inevitabilmente, dopo l’ascolto di questo disco di esordio di Beth Hart. Perché qui, c’è una sola canzone che davvero merita l’attenzione – tutta l’attenzione – di chi ama l’hard rock blues. Il resto ha i suoi meriti, i suoi lati interessanti, ma non spicca gran ché, non si può neppure etichettarlo con certezza come hard rock: c’è una marcata vena anni 70, un grande amore verso la musica di Janis Joplin, un sound robusto e asciutto ma orientato verso il mainstream rock americano contemporaneo (il “contemporaneo” del 1996, naturalmente). E poi, all’improvviso, quasi alla fine (è la penultima canzone), arriva “Am I the one”... uno di quei mid tempo che procedono lenti, rotolando come macigni di granito foderati di velluto, un blues che più classico non si può, pilotato da una chitarra Zeppeliniana e dalla voce cupa di Beth con una forza ed una intensità che lasciano senza fiato... E tu ti chiedi, allora: perché? Perché hanno perso tempo con canzoni e canzoncine rock quando sapevano e potevano fare questo? Perché Beth, che ha una voce che sembra la fusione (quasi) perfetta di Sheryl Crow e Alannah Myles, invece di cantare il blues per tutto il suo primo disco ha preferito spesso e volentieri prodursi in lamenti flautati e singhiozzanti che fanno tanto Carmen Consoli (orrore!)? Non ho una risposta, naturalmente, né questa risposta ce l’ha mai data Beth, che prosegue la sua carriera sempre su questa falsariga, alternando rock e blues, ballad e canzoni più impetuose, come nel recentissimo ‘37 days’ (che stranamente la Universal ha deciso di pubblicare  solo in Europa).

Ma c’è davvero solo “Am I the one” di buono, in questo disco? Il punto è, che se questa canzone non ci fosse, ‘Immortal’ avrebbe pochissima ragione di figurare su questo sito. Il “buono” non è tanto da intendersi in senso assoluto ma relativo ai generi che il webmaster ed i suoi lettori più apprezzano. Il resto di ‘Immortal’ può essere buono o meno in rapporto ad altre realtà musicali più o meno conosciute, ma non riguarda che marginalmente l’hard rock propriamente detto, e si può mettere in rapporto ad artiste (tanto per rimanere in campo femminile) come la Sheryl Crow già citata o Alanis Morrisette (epoca ‘Jagged little pill’). Dal successivo 'Screaming for my supper', poi, Beth rinuncia alla “band”, marcando i suoi dischi “Beth Hart” e basta, avviandosi lungo un percorso più cantautorale, meno rock propriamente detto, impostando un discorso che finisce per girare tutt’attorno alla sua voce e rivolto a coloro che più che alla musica sono interessati alle chiacchiere, a qualcuno che dice delle cose mentre dietro qualcun altro assolutamente trascurabile costruisce un sottofondo ritmico molto discreto: io, questo genere di discorso non lo apprezzo, non lo capisco, non mi piace, anche se viene condotto da una voce magnifica come quella di Beth Hart. La voce e le parole sono solo un elemento del quadro, che deve sposarsi con tutti gli altri, non camminarci sopra.

Am I the one”… ossia, in lingua madre: sono io quella giusta, la prescelta, la persona che aspettavi? Lei poteva esserlo. La nuova dea dell’hard rock blues. Ma poi ha cambiato idea.

 

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FLESH & BLOOD

 

 

  • BLUES FOR DAZE (1997)

Etichetta:Now& Then Reperibilità:scarsa

 

Siamo a metà anni novanta. Le major labels, di AOR et similia non vogliono più sentir parlare e le strade di Los Angeles sono tappezzate di musicisti più o meno disoccupati. Mark Mangold, dopo la fine dei Drive, She Said, si ritrova anche lui di fronte alla terribile alternativa: provare a riciclarsi in qualche altro genere musicale oppure mollare tutto e, che so,  mettersi a vendere auto usate o aprire una lavanderia a gettone. Dato che il tentativo di portare i Drive, She Said in territori musicali più attuali non aveva dato frutti e le bands pseudo alternative formate da reduci dei Big 80s facevano quasi tutte la fame, Mark pensò di abbordare un altro genere che a fine anni novanta pareva dare buoni riscontri: l’hard blues. Con il solito Chuck Bonfante ai tamburi, chiama il camaleontico chitarrista Al Pitrelli (Alice Cooper, Windowmaker, Asia, Savatage, Megadeth) ed il bassista Mitch DeStefano. Manca un cantante e caso vuole che, mentre nel suo studio Mark sta lavorando ad un disco i cui proventi dovrebbero andare in beneficenza ad una tribù Sioux (avete mai sentito parlare di questo disco? Io no, e probabilmente neppure i Sioux), passi da quelle parti Danny Vaughn, orfano dei Tyketto e anche lui sulla lista dei disoccupati. A Danny, il discorso Flesh & Blood non può che interessare, visti i suoi trascorsi e futuri lavori, così la nuova band registra un disco e si prepara anche ad andare in tour, quando Danny molla tutto per tornare – solo temporaneamente – con i Tyketto, ed il vascello Flesh & Blood si arena appena dopo il varo.

Abbiamo perso molto? Dipende dai punti di vista. Il fatto è, che non puoi improvvisarti bluesman dalla sera alla mattina, e Mark Mangold, col blues pareva proprio che non avesse mai avuto niente a che farci, prima di questo disco. Non che sia un brutto disco, assolutamente. È suonato da Dio, interpretato da Danny Vaughn con la consueta classe ed un’aggressività che non sentiremo mai sui suoi album solisti, ben prodotto. Cosa gli manca, allora? Le canzoni, gli mancano. Mark e compagnia, difatti, più che comporre, saccheggiano. Nessuno chiede l’originalità assoluta su quella matrice, ma, giusto per fare qualche nome, i Mr. Big, Neal Schon, Jeff Healey (per non parlare dei Metallica) stanno dimostrando in quello stesso periodo storico come si possa fare hard blues senza rubare niente a nessuno, in qualche caso perfino innovando. Se Mark Mangold non prende questa rotta, credo ciò avvenga non tanto per cattiva volontà, ma proprio perché non ne sia capace, la sua carriera si è consumata tutta tra il pomp e l’AOR, e questa navigazione in terre per lui sconosciute non lo spinge certo in posti poco o nulla battuti. E, comunque, questa è una band messa assieme con il cervello, non con il cuore, una proposta mirata ad un certo mercato che a quell’epoca pareva rispondere bene ad opere che, più che dire qualcosa di nuovo in campo rock blues, si limitavano a celebrare e riproporre la solita minestra. E Mark non si fa problemi a prelevare ingredienti qui e là per dare sapore alla propria zuppa, che risulta comunque stuzzicante, ma dal gusto talvolta fin troppo noto, così che potremmo quasi definire i Flesh & Blood come i Ten dell’hard blues… Ma, come la pietanza servita dai Ten risulta prelibata a meno di non essere troppo schizzinosi, così quanto ci viene proposto dai Flesh & Blood è, per gli appassionati del genere, particolarmente appetibile, anche se bisogna fare un notevole sforzo di volontà per passare sopra il fatto che “Judgment day” è una fotocopia spudorata della “Till the day I die” degli Whitesnake, che “Jenny doesn’t live here anymore” (la più vicina alle atmosfere dei Tyketto, epoca ‘Strenght in numbers’) ha un refrain sfacciatamente simile a quello della “Rocket man” di Elton John, mentre “Riverside” sembra uno di quei blues di Robert Johnson che i Cream rifacevano in chiave elettrica sui loro dischi. Anche “Voodoo man” (blues acustico dall’atmosfera un po’ western) dichiara una precisa discendenza (i Tangier di “Takes just a little time”), mentre “Feel the power” e “Shake ya tail feather” sono hard rock settantiani, il primo decisamente funk, il secondo più orientato al rhythm and blues. “Bed of roses” e “Man enough” sono impostate su atmosfere southern (bello l’assolo slide di Pitrelli sulla prima) tipiche dei Black Crowes, mentre “Boogie chile” pesca nel rifferama dei ZZ Top, con un formidabile assolo di piano boogie di Mark Mangold. “I know where you been” sono i Bad Company cucinati in salsa southern, la misteriosa “Sweet sister rose” si riaggancia di nuovo a Black Crowes ed ai vecchi Whitesnake, con qualche spunto soul nel finale, come “Blues for daze (Mr. blue)”, che mette nel calderone anche Jeff Healey, i Dirty White Boy ed i Little Caesar.

Blues for daze’ uscì nel 1997 per la Now & Then, dunque non è affatto facile trovarlo, e se ci riuscite vi chiederanno come minimo una trentina di dollari. Lo consiglio perciò solo agli irriducibili seguaci dell’hard blues e in particolare ai fan di Danny Vaughn, che lungo tutto l’arco del disco offre delle performances strepitose, molto più convincenti ed entusiasmanti di quelle che ci darà nei dischi a suo nome.

 

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JEFF HEALEY BAND

 

 

 

  • FEEL THIS (1992)

Etichetta:ARISTA Reperibilità:in commercio

 

Jeff Healey è stato l’ultimo rappresentante di una categoria particolare e un tempo foltissima: quella del bluesman cieco. Se andiamo a scorrere l’elenco dei vecchi bluesman neri, troviamo una caterva di musicisti che avevano come soprannome blind: Blind Boy Fuller, Blind Blake, Blind Lemon Jefferson, Blind Willie Johnson, Blind Willie McTell, Blind Gary Davis eccetera, per non parlare di quelli che neppure si degnavano di adottarlo pur essendo ciechi, come Sleepy John Estes. Non erano sempre la miseria, la malnutrizione e le cure mediche scadenti a produrre tanti non vedenti. Di Blind Boy Fuller, per esempio, si dice che fu accecato con l’acido da una ragazza gelosa. Storie di blues… Quel blues che, a partire dagli anni 50, i neri non volevano più ascoltare e che avrebbe rischiato seriamente di morire, abandoned and alone come cantavano i Bad Company, se non fosse stato per il rock, il suo figlio bastardo e spesso ingrato. È dagli anni 60 che il pubblico del blues è quasi esclusivamente bianco. Al giorno d’oggi, i neri del blues sanno poco o nulla: ascoltano il soul, il rhythm & blues, il rap. Se chiedete ad un nero americano chi sono Robert Johnson o Muddy Waters, nove su dieci non saprà rispondervi. Per la popolazione afroamericana degli USA, il blues è lettera morta. I musicisti neri, dagli anni 60 in poi, hanno suonato esclusivamente per i bianchi, ed i musicisti bianchi hanno preso lentamente il loro posto, hanno fatto propria quella musica. Un ruolo importantissimo lo ebbero gli inglesi, che si innamorarono del blues ed andarono a riscoprire artisti che per gli americani erano diventati solo un ricordo sbiadito e prossimo ad estinguersi oppure semplici glorie da celebrare. John Mayal, i Rolling Stones, i Cream, gli Yardbirds, i Led Zeppelin, Jeff Beck, i Savoy Brown, i Free ed i Bad Company hanno reinventato il rock attraverso il blues, riesportandolo negli USA e restituendogli quella vitalità che dopo appena una decina d’anni dalla sua nascita sembrava già perduta. E molti musicisti blues si sono riappropriati del rock, al punto che è difficile stabilire se suonino l’uno o l’altro, come nel caso di Jeff Healey.

Jeff Healey perse la vista ad appena otto mesi, a causa di una rara forma di cancro alla retina che costrinse i medici ad amputargli i globi oculari. Come tanti bluesman prima di lui, fu praticamente un autodidatta, cominciò a suonare la chitarra a tre anni, sviluppando quella tecnica particolare, seduto con lo strumento tenuto piatto sulle ginocchia, tipica dei chitarristi country che suonano la lap steel secondo la tecnica slide (una posizione che viene detta anche, se non vado errato, “Hawaiana”). Scoperto nientemeno che da Stevie Ray Vaughan mentre suonava in un locale di Toronto, ottenne il contratto discografico con l’Arista nel 1988. Nonostante il suo primo amore fosse stato il jazz, Jeff portò subito il suo blues in territori prettamente hard rock, conquistando rinomanza e successo anche fuori dal circuito specializzato, diventando quasi una rockstar, almeno per un paio d’anni. Le fortune commerciali del suo primo album, difatti, non vennero replicate dai dischi successivi, nonostante Jeff si spostasse verso sonorità ed atmosfere sempre più hard rock, che in teoria avrebbero dovuto renderlo ancora più gradito al pubblico mainstream. ‘Feel this’ è sicuramente il suo disco più hard rocking, quello meno calcolato per l’audience blues e probabilmente più godibile in assoluto dal fruitore abituale del rock melodico, non tanto distante da ciò che in quel periodo facevano bands come Bad Company, Dirty White Boy, Aerosmith, Tattoo Rodeo. La presenza tra gli ospiti di Jimi Jamison e tra i songwriters di Stevie Salas testimoniava ulteriormente una precisa volontà di Jeff Healey di abbordare la vasta audience del class rock, che non avrebbe dovuto rimanere indifferente ad un prodotto di notevolissima caratura, fatto di ben quattordici canzoni di robusto rock blues dalle mille sfaccettature, con il plus di arrangiamenti dilatati dalle tastiere, produzione impeccabile ed un sound spettacolare. Se “Baby’s lookin’ hot” e “Live and love” seguono coordinate bluesy abbastanza tradizionali (la prima serrata e pigra nello stesso tempo, la seconda con sfumature hard e soul), “Cruel little number” impasta rock blues e AOR in un tessuto ruvido e vellutato assieme, mentre “House that love built” (ruggente e fascinosa, scritta da Tito Larriva dei Cruzados e reincisa dalla sua nuova band, Tito & Tarantula, per la colonna sonora del film di Robert Rodriguez “Dal tramonto all’alba”) e “Evil and here to stay” (un mid tempo lento e martellante, con una slide incandescente) sono schegge di puro hard rock blues. “My kinda lover” è una track impetuosa che segue abbastanza da presso le tracce dei Bad Company anni 80, mentre “Heart of an angel” insegue il fantasma dei Tangier, “If you can’t feel anything else” è un funk abrasivo dove Jeff duetta con il rapper Jr. John e spara un ruvido assolo Hendrixiano. “It could all get blown away” sembra venire dritta dalla colonna sonora di un film western: immensa. “Joined at the heart” è semplicemente fantastica, come un Carlos Santana più aggressivo e rockeggiante. Le ballad pure spaziano tra atmosfere piuttosto varie, dalla cover di Tom Petty, “Lost in your eyes”, a “Leave the light on”, sensibile ed intensa, con forti venature soul nel refrain, all’AOR di “You’re coming home”, alla conclusiva “Dreams of love”, delicata, misteriosa, suadente ma chiusa da un inaspettato sovrapporsi di tempestosi assoli elettrici.

Dopo questo album, Jeff praticamente decide di tornare al suo primo amore, il jazz, riprendendo il discorso blues solo nel 2008 con ‘Mess of blues’, uscito però postumo, dato che un mese prima della pubblicazione del disco, il due marzo, ad appena 41 anni, Jeff Healey lascia questo mondo per un cancro ai polmoni. Ci mancherà quel suo vocione profondo e nasale, quella chitarra che sapeva carezzare e graffiare nella stessa misura. È un altro grandissimo passato nell’elenco di quelli che non ci sono più, e da quel due marzo del 2008 siamo tutti più poveri.

 

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DEEP PURPLE

 

 

  • BURN (1974)

Etichetta:EMI Reperibilità:in commercio

 

Immaginate di essere un giovane uomo, poco più che ventenne, in cerca di fortuna nella Londra dei primi anni ’70. Siete venuto lì con il sogno di diventare un cantante, perché avete una gran voce, ma a Londra, ed in tutta la Gran Bretagna, quel sogno è condiviso da una buona percentuale della popolazione under 30, così che avete trovato una concorrenza feroce e difficoltà inenarrabili per farvi notare. Siete riusciti a rimediare un posto in una band da pub e per le vostre esibizioni è già tanto se vi pagano con una pinta di birra, e sbarcate il lunario lavorando come commesso in una profumeria. Prospettive a breve e medio e lungo termine: zero. Ma un giorno, vi capita tra le mani una copia del New Musical Express, ed i vostri occhi cadono su un annuncio, anonimo e neppure particolarmente vistoso. Una non meglio identificata “band con contratto discografico” sta cercando un nuovo cantante, chi è interessato a sostenere un provino può presentarsi a questo indirizzo eccetera. Voi non avete niente da perdere, salvo un pomeriggio di paga dietro il bancone della profumeria. Ci andate, qualcuno vi dà un microfono e vi chiede di cantare qualcosa. Lo fate, alla fine qualcun altro vi dice il solito: ti faremo sapere. Voi guardate la fila di gente che aspetta di prendere il microfono che hanno dato prima a voi, scuotete la testa e andate via. Passa un po’ di tempo, e un giorno il vostro telefono squilla e una voce vi dice che il provino è andato bene e che siete stato assunto. Voi allora chiedete in quale band. La voce risponde: – I Deep Purple.

Voi, naturalmente, vi chiamate David Coverdale.

Provate a immaginarvi al posto suo: come avreste reagito? La leggenda vuole che l’ormai ex commesso di profumeria, quando seppe di essere diventato il nuovo cantante di una band multimilionaria che veleggiava già ai confini della leggenda, ebbe una vera e propria crisi isterica da panico. Ma il timore reverenziale durò pochissimo. L’occasione era arrivata, ed era un’occasione d’oro, e David Coverdale non era certamente tipo da tirarsi indietro, anche se forse un’altra mazzata gli arrivò quando seppe che avrebbe dovuto condividere le parti vocali con Glenn Hughes, l’ex singer e bassista dei Trapeze, già noto come uno dei migliori cantanti che la scena hard rock inglese avesse partorito fino a quel momento. Perché poi i Purple non avessero semplicemente deciso di affidarsi in toto all’ugola di Glenn, resta un mistero che ancora oggi non è stato svelato: ragioni di immagine? Eravamo in cinque e cinque dobbiamo rimanere? Chissà.

L’addio di Ian Gillan e Roger Glover aveva lasciato la band nelle peste. Non era tanto una questione di continuare in qualche modo con un paio di nuovi membri. Tutta la carriera della line up Mark II era stata un’altalena sconcertante di dischi strepitosi e altri fiacchi e monotoni. I ritmi che le case discografiche imponevano a quei tempi agli artisti li obbligavano a comporre in maniera forsennata, d’accordo, ma la differenza di spessore tra ‘In rock’ e ‘Machine head’ da un lato e ‘Fireball’ e ‘Who do you think we are’ dall’altro autorizzava dubbi e sospetti sulla tenuta di una band che pareva arrivata già alla frutta. Ci voleva qualcosa di nuovo, energia e sangue giovane, e Blackmoore accettò la sfida… oppure la subì? Il novellino Coverdale arrivò con la sua passione per il blues ed il rhythm and blues, Glenn Hughes portò quella per il funky ed il soul, generi che prima i Purple non avevano frequentato con continuità e, sopratutto, convinzione. I nuovi arrivati presero il timone della barca e le fecero prendere una rotta che al Man In Black dovette procurare interminabili accessi di mal di mare se dopo appena due anni anche lui sbarcò dal vascello per farsi (finalmente) una nave tutta sua, di cui fosse comandante ed armatore, quei Rainbow che dopo un primo album sognante, morbidone ed Hendrixiano, servirono a Ritchie per sfogare tutto il suo segreto (fino a quel momento, almeno) amore per i Led Zeppelin. Mi ha sempre stupito che la critica abbia passato sotto silenzio quanto di zeppeliniano c’era in ‘Rising’ e ‘Long live rock ‘n’ roll’: il riff alla “Immigrant song” che apre “Tarot woman”, quella replica in tono minore a “Kashmir” che fu “Stargazer”, e poi ancora il riff stile “The wanton song” di “Lady of the lake”, le citazioni di “Stairway to heaven” che marezzano “Rainbow eyes”, le architetture alla “Trampled under foot” di “L. A. Connection”, l’intro di “Shed (The subtle)”… Ma stiamo correndo troppo, ci troviamo ancora nel 1973, e la band rinnovata è di nuovo in studio con il solito Martin Birch dietro il mixer, al lavoro su un disco che rigeneri un monicker già spompato.

Arrivato qui, prima di cominciare a raccontarvi questo primo album della line up Mark III, debbo per onestà ammettere che non sono mai stato un grande fan di Ian Gillan. Non mi piace granché la sua voce acida, e neppure i testi strambi che scrive per le sue canzoni. Se in quel 1973 non avessi avuto appena sei anni e la minima idea che esisteva una rock band chiamata Deep Purple, probabilmente avrei salutato la dipartita di Gillan senza il minimo rimpianto. Se poi avete letto i miei pezzi sugli Whitesnake, sapete già che David Coverdale è in assoluto il mio cantante preferito. Questo potrebbe rendermi giudice poco imparziale di un album che ha relativamente poco in comune con i capisaldi ‘In rock’ e ‘Machine head’. Il fatto è, che oggi si tende a dimenticare che i Deep Purple non sono stati soltanto quelli della line up Mark II. È la stessa cosa successa con i Black Sabbath, che pare quasi non abbiano prodotto nulla dopo la separazione da Ozzy prima e R.J. Dio poi, e dischi notevoli come ‘Eternal idol’, ‘The headless cross’, ‘Cross purposes’ è come se non fossero mai esistiti. Il fatto che i Purple entrati nella leggenda dell’hard rock siano quelli della line up Mark II non autorizza a cacciare nell’oblio tutto quanto è stato fatto prima o dopo l’avvento di quello che viene considerato, mutuando il termine dal basket, il quintetto base.

Registrato ancora a Montreaux, in Svizzera, con il solito Rolling Stone Mobile Studio, ‘Burn’ è aperto dalla leggendaria title track, con quel riff sfrigolante e stracopiato e la nota inedita del ruggito di un David Coverdale ancora implume che si alterna con la voce acuta eppure robusta di Glenn Hughes. Ritchie non rinuncia ad inserire nel suo assolo quelle terzine alla Bach che erano diventate un suo marchio di fabbrica (e che tanti danni faranno nella mente di un giovane svedese di nome Yngwee Malmsteen…), ma anche la parte solista di Jon Lord, divisa stavolta tra l’Hammond ed il Moog, contiene figurazioni classicheggianti. Altra atmosfera su “Might Just Take Your Life”, caratterizzata dal riff chitarra / tastiere ed il sapore spiccatamente blues (ma questa canzone a me è sempre sembrata una sorta di alternate version di “My woman from Tokyo”). “Lay Down, Stay Down” è un vero e proprio hard rhythm and blues, ma con “Sail Away” si entra di nuovo nella leggenda, un mid tempo lento ed implacabile, caratterizzato da una melodia romantica e zingaresca che anticipa quanto Ritchie farà poi con i Rainbow, e sulla stessa falsariga si muove "You Fool No One", più svelta, urgente ed un po’ funky. E poi blues e ancora blues su "What's Goin' On Here", dove Jon Lord lascia l’Hammond per sedersi al piano. L’assolo di Ritchie è un po’ legnoso, quasi non del tutto convinto, mentre quello di Jon è invece limpido e divertito. “Mistreated” è lunga, sofferta, epica e romantica, una delle poche cose dei Purple che Blackmoore porterà con  sé negli show dei Rainbow e David Coverdale in quelli degli Whitesnake (e la versione che David registrerà con la sua band sul ‘Live… in the heart of the city’ è decisamente superiore a questa dal punto di vista della performance vocale). Chiude lo strumentale “A 200”, che potrebbe definirsi una sorta di appendice a “Child in time”, impostato prevalentemente sulle tastiere. In definitiva: i Deep Purple non sono diventati i Bad Company o i Savoy Brown, la vena blues è solo questo, una vena, una flavour che si apprezza nitidamente senza divenire soverchiante.

Nella versione pubblicata in occasione del trentennale dell’album, nel 2004, vennero aggiunte cinque bonus tracks: "Coronarias Redig", che era la B side di “Might Just Take Your Life” e non era mai finita su disco in precedenza (si tratta di un fascinoso strumentale in cui Ritchie accenna quello che diventerà due anni dopo il tema melodico di "Catch the rainbow"), e le versioni rimixate di “Burn”, “Mistreated”, “You fool no one” e “Sail away”, caratterizzate da una qualità audio decisamente superiore rispetto alle versioni solo rimasterizzate (perché poi non abbiano rimixato tutto l’album ma si siano limitati solo a queste quattro canzoni, solo Dio lo sa). Qui, viene poi finalmente accreditato come songwriter anche Glenn Hughes: nel 1974, il suo nome non aveva potuto comparire tra gli autori delle canzoni assieme agli altri, per questioni contrattuali, anche se Glenn aveva firmato sette pezzi sugli otto che compongono il disco.

I buoni riscontri di pubblico e critica rendono la neonata coppia Coverdale / Hughes sempre più leader, al punto che su ‘Stormbringer’, Ritchie sembra ridotto a fare il session man, limitandosi a suonare quanto i nuovi arrivati mettono a sua disposizione. Se quest’ultimo disco va discretamente bene negli USA (diventa d’oro già ai primi del 1975, come il suo predecessore), in Gran Bretagna arriva sì e no a vendere 60000 copie. Blackmoore ne ha abbastanza: se ne va, “sequestra” gli Elf (suoi dipendenti, dato che incidevano per la Purple Records) e li fa diventare la sua support band (dopo aver licenziato il chitarrista, of course), i Rainbow, ritrovandosi però subito immischiato in un’altra lotta per la leadership con il suo nuovo cantante, Ronnie James Dio. I Purple continuano ad esistere per un altro album, ‘Come and taste the band’, con il bravo Tommy Bolin alle chitarre, ma il pubblico non risponde all’invito di venire ad assaggiare la band, questi Deep Purple senza Blackmoore sembrano uno scherzo di natura, arriva lo scioglimento ed i reduci che si sparpagliano, David Coverdale con Jon Lord e Ian Paice negli Whitesnake, Glenn Hughes che affonda nella palude della droga, Tommy Bolin passato a miglior vita per un overdose, Blackmoore con i suoi Rainbow che, passata la sbornia zeppeliniana e licenziato l’ormai troppo invadente Ronnie James Dio, va senza troppo successo a caccia di fortuna negli USA con Graham Bonnet prima e Joe Lynn Turner dopo, Ian Gillan a vagolare tra l’hard rock ed il prog prima di unirsi per un solo album ai Black Sabbath (il sottovalutato ‘Born again’).

La reunion del 1984 ha un senso, per me, solo in quanto rappresenta il necessario preludio alla line up Mark V, quella che ha inciso il favoloso ‘Slaves and masters’: una sorta di prequel per il miglior prodotto dei Purple anni 80, a cui rimando – vi basta seguire il link – se volete conoscere o ripassarvi il resto della storia.

 

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THE FOUR HORSEMEN

 

 

  • NOBODY SAID IT WAS EASY (1991)

Etichetta:American Recordings Reperibilità:scarsa

 

Quando ho recensito il primo album dei McQueen Street, ho sottolineato la differenza che – a mio sommesso e sempre opinabile parere – esiste tra le bands cosiddette minori e quelle inutili o superflue. I McQueen Street, come ho già scritto, mi sembrano un ottimo esempio di band minore. Ma quali sono le band inutili? Così, d’istinto, mi vengono subito in mente tre monickers: Circus Of Power, Almighty e The Four Horsemen. Se c’è stato però sempre un certo accordo sulla completa inutilità delle prime due bands, non altrettanto è accaduto per i The Four Horsemen, di cui qualche critico lodò oltre misura il primo album, ‘Nobody said it was easy’. Su quali basi si innalzavano queste lodi? Cosa c’era, in concreto, di lodevole qui dentro? Per i critici in questione, due erano gli elementi cardine che rendevano il disco dei The Four Horsemen un ascolto imprescindibile: 1) la capacità della band di clonare gli AC/DC; 2) la produzione scarna e old fashioned di Rick Rubin.

Quando scrivo “clonare” non sto usando un eufemismo: i The Four Horsemen sembravano non volere altro che essere gli AC/DC. Delle dodici canzoni di questo loro album d’esordio, almeno nove erano impostate sulle coordinate care alla band di Angus Young, senza alcuna impronta personale. Ora: considerato che gli AC/DC, praticamente dai tempi di ‘Back in black’ – già lontanissimi all’epoca in cui ‘Nobody said it was easy’ uscì – non riescono a mettere assieme un disco che sia possibile ascoltare dal principio alla fine senza addormentarsi o ritrovarsi con i coglioni gonfi come cocomeri, che quel loro sound basato su tre accordi scarsi, una voce stridula ed isterica ed il tum tum sempre uguale della batteria, tutto sommato funziona ed ha sempre funzionato bene solo dal vivo, dove le luci, il volume ed i balletti di Angus distraggono adeguatamente l’ascoltatore e molto opportunamente si eseguono solo i classici del repertorio, valutato tutto questo, insomma, ci si può legittimamente chiedere quali ambizioni potessero nutrire i The Four Horsemen proponendo questo genere di materiale ad un audience che quel tipo di sound, comunque, lo accetta nella sua forma canonica solo da Angus e soci. Non c’era la volontà di mettersi a fare concorrenza ai Kix o ai Dirty Looks, che mediavano sapientemente quel sound con la melodia, era solo una stanca, noiosa, irritante riproposizione di stilemi rimasticati fino alla nausea, fuori tempo e fuori luogo. Ogni tanto i The Four Horsemen ci mettevano qualcosa di più in questo insipido minestrone, un assolo bluesy, un ritornello meno scemo degli altri, ma in genere si scivolava sempre in un’essenzialità tediosa che almeno in un caso sconfinava nella pura e semplice presa per il sedere (“Wanted man”). A voler essere buoni a tutti i costi, si potrebbe supporre che i The Four Horsemen facevano solo quello che sapevano fare, un paio di accordi e giù a urlare a squarciagola, ma “Homesick blues”, “Tired wings” e “I need a thrill – Somethin’ good” sono lì a smentire questa benevola ipotesi. La prima è un bell’hard bluesy, le altre due sono power ballad dal clima southern, veramente ispirate e convincenti, con il singer Frank Starr che la smette di latrare come un castrato che stiano sodomizzando con un ferro rovente e canta (molto bene) da essere umano. Se erano capaci di fare cose del genere, perché allora ci hanno rotto le palle con altre nove canzoni tanto rozze, primitive, ignoranti e superate? Cosa volevano dimostrare e a chi? Si potrebbe puntare l’indice su Rick Rubin, che è notoriamente affezionato ad uno stile di produzione tutt’altro che sofisticato, e certo qualche responsabilità deve averla avuta anche lui, ma le canzoni non le scrive il produttore, si limita a dar loro una forma, e se questo era il materiale che i The Four Horsemen avevano messo a sua disposizione… E allora? Opportunismo? Ma c’era davvero qualcuno in giro, nell’America del 1991, che voleva ascoltare questa roba ed era pronto a pagare per averla? Se questa era la speranza della band andò delusa, dato che il disco non se lo filò nessuno (ma fruttò due singoli di discreto successo), e loro, dopo una serie di problemi e tragedie (Frank Starr che entrava e usciva di galera per brutte storie di droga, la morte per OD del drummer Ken Montgomery, la morte di Starr dopo tre anni di coma in seguito ad un incidente) si sciolsero senza che nessuno ci facesse caso.