E’ cominciato tutto a metà anni ’80. Ad aprire la strada sono stati i Great White e gli ZZ Top, a spianarla i Tesla, a trasformarla in un’autostrada a sei corsie gli Aerosmith. L’hard rock ritrovava il suo padre spirituale, il blues. E da questo ritorno a casa traeva linfa vitale, forza ed un fascino sconfinati. I nomi che si fecero devoti di questa causa quasi non si contano: Kingdome Come, Cinderella, Badlands, Dirty White Boy, Salty Dog, Lynch Mob, Delta Rebels, Tora Tora, Little Caesar, Katmandu, Black Crowes... un fiume che pareva inarrestabile, ma è finito invece inghiottito anche lui dal terremoto che il grunge provocò sulla scena musicale americana nei primi anni 90. Nell’ HARD BLUES DEPARTMENT di AORARCHIVIA, tutte le recensioni dei dischi delle bands che furono protagoniste di questa magica stagione.

 

 

HARD BLUES DEPARTMENT

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BLACKEYED SUSAN

 

 

  • ELECTRIC RATTLEBONE (1991)

Etichetta:Polygram Reperibilità:scarsa

 

Ecco una band facile da descrivere. Non ti costringe a spulciare la tua collezione di dischi alla ricerca disperata di punti di riferimento, non ti chiede voli pindarici o lotte all’ultimo aggettivo per raccontare le canzoni. Basta un nome, uno solo: Cinderella. Dean Davidson, rottosi le scatole del party rock elementare dei suoi Britny Fox, mise su questa band con un unico obiettivo, apparentemente: riscrivere ‘Long cold winter’ e 'Heartbreak station'. Non citando e scopiazzando, ma usando quella stessa ricetta, ricreando le stesse atmosfere con un pizzico di anarchia ed esotismo sonoro in più. Una grossa mano gliela dette Rick Criniti, che era stato per anni il tastierista dei Cinderella ma nei Blackeyed Susan suonava esclusivamente le chitarre ed il sitar. Gli altri musicisti coinvolti nel progetto erano il chitarrista Tony Santoro e la sezione ritmica formata da Erik Levy al basso e Chris Branco dietro i tamburi. Della produzione e di tutte le parti di tastiere si occupava Randy Cantor, ex key player di fiducia di sua altezza Jack Ponti.

Rispetto alla band di Tom Keifer, i Blackeyed Susan (il nome, la band l’ha mutuato da un fiore) avevano un songwriting molto meno stratosferico, ma una carica ed un’irruenza superiore, un suono meno lindo, più grasso e colorato: le sovrincisioni si sprecano e abbondano le tastiere, gli ottoni e gli archi, i cori femminili. Manca quella ricerca esasperata dell’equilibrio, anzi: la band si lascia andare felicemente, sperimenta, inventa, mescola e impasta suggestioni che a volte vengono da molto lontano, come su “None of it matters”, tramata di psichedelia sixties sulla scia dei Throbs o dei Cult più languidi, con le sue chitarre liquide e le ragnatele tessute dal sitar, o nella scatenata “She’s so fine”, dove il sitar convive con schegge d’archi, fiati e addirittura cornamuse (!!). Per il resto, ritroviamo tutti gli ingredienti e le atmosfere che i Cinderella avevano usato per comporre il mosaico di ‘Long...’: non alternative versions di quelle stesse canzoni, ma piuttosto sguardi nella stessa direzione: dalle esercitazioni più genuinamente blues, come “How long” e “Don’t bring me down” (rilucenti di ottoni e slide guitar), alla semi ballad d’ispirazione southern (“Ride with me”, che parte con un morbido intro di steel guitar) alla ballatona d’atmosfera (“Best of friends”, solennemente soul tra il palpitare degli archi). Ogni canzone ha la sua particolarità e le sue invenzioni: “Satisfaction” è infiammata dal piano boogie e da fiati aerosmithiani, su “Old lady snow” spiccano gli intrecci vocali soul delle coriste. Dean Davidson canta - ovviamente - come un Tom Keifer più scanzonato e meno aspro, e il clima di ‘Electric rattlebone’ è improntato più ad una gaiezza festaiola che a quella malinconia dolente caratteristica invece di tanti momenti di ‘Long...’. Atmosfere forse troppo gaie e troppo festaiole per un momento storico che imponeva ai ragazzi la moda della depressione e/o quella dell’incazzatura permanente. Un’altra band nata morta, insomma. Il solo Rick Criniti riapparirà tre anni dopo, nel 1994, con un progetto non tanto lontano - almeno nello spirito - dai Blackeyed Susan, quei LeCompt formati da ex Tangier e - ancora... - Britny Fox, che tentarono (anche loro senza fortuna) di ritrovare una magia che pareva perduta in qualche vecchio LP degli Aerosmith tutto rigato dimenticato in qualche soffitta polverosa.

 

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GREAT WHITE

 

 

  • ROCK CHAMPIONS (2000)

Etichetta:EMI Reperibilità:in commercio

Uno degli ostacoli più difficili da superare quando si decide di farsi una seria cultura in materia di musica rock è rappresentato, inevitabilmente, dal (costoso) reperimento dei testi su cui studiare. Oggi, il web dà a chi possiede o può usufruire di una linea ADSL la possibilità di ottenere tutto o quasi quanto è stato registrato dai tempi di Chuck Berry ed Elvis ad oggi, e anche se la tentazione di procacciarsi la musica senza pagare un centesimo è forte, fortissima, bisogna ricordare che il ricorso massiccio a questa pratica (la quale, detto senza mezzi termini, si chiama furto) ha già creato danni a non finire e rischia seriamente di ammazzare un settore già in crisi. Se poi consideriamo che i dischi vecchi di qualche anno sono venduti a prezzi generalmente molto più bassi rispetto a quelli nuovi di pacca, mi pare che l’alibi dei discografici ladri e speculatori non regga più. Resta comunque un problema squisitamente quantitativo da risolvere, sopratutto quando si vuol conoscere la produzione di una band che ha una discografia abbastanza rilevante. C’è chi consiglia di procurarsi l’immancabile live, ma la soluzione - personalmente - non mi convince. Tutti i live, a meno che non abbiano avuto pesantissimi ritocchi in studio, suonano male, e le canzoni sono solo le parenti povere di quelle registrate con calma ed attenzione sotto la guida dei produttori, con il giusto contorno di effetti ed overdubs. Sono veramente pochissimi i dischi dal vivo degni di stare alla pari con gli album di studio, e insomma, soltanto i grandissimi, come i Led Zeppelin o gli Aerosmith, sapevano trasformare ogni concerto in un vero evento, degno di essere datato, catalogato e conservato per le generazioni future. L’unica alternativa al live è la compilation... e se qualche purista sta storcendo il naso, abbia almeno pietà dai nostri poveri portafogli.

La diffidenza verso l’album antologico nasce in genere dal fatto che molti di noi si ritrovano in possesso della discografia completa di almeno una band, e se a quel gruppo è toccata la compilation, novantanove su cento la scelta dei brani non ci avrà convinto per niente: ricordo ancora lo sconcerto (ma sarebbe forse più corretto parlare di raccapriccio) che provai leggendo la scaletta di quella che la EMI allestì per gli Whitesnake una decina d’anni fa, oppure - per restare ai nostri giorni - l’assurdo di pubblicare una compilation dei Van Halen con la bellezza di 36 canzoni e non includere tra queste neppure una di quelle cantate da Gary Cherone.

Quando ho deciso di scrivere sui Great White mi sono trovato ad affrontare il solito dilemma: quale disco prendere in considerazione? Once bitten’? ‘Twice shy’? Hooked’? Tutti e tre questi e magari qualcun altro? Alla base di ogni pezzo pubblicato su questo sito c’è il desiderio di far conoscere certe band a chi ne ha sentito parlare punto o poco, e spesso l’implicito (a volte neanche tanto implicito, per la verità) consiglio di procurarsi i loro dischi. Dei Great White dovrei consigliarvi almeno quattro album, come minimo. E allora, perché non  puntare su una compilation che è fatta insolitamente bene e costa davvero poco? Se poi questa in particolare non vi convince o non la trovate, potete puntare su qualcuna delle altre: i Great White probabilmente sono secondi solo ai Queen per il numero di antologie pubblicate.

Ma per quale motivo lo studente in AOR dovrebbe andare ad ascoltarsi i Great White? Sono una band fondamentale, tanto per cominciare? Secondo il mio modestissimo parere, sì. Anche se per qualche misterioso motivo non hanno mai goduto di grande successo fuori dagli USA (dove sono invece delle autentiche istituzioni), i Great White costituiscono uno dei capisaldi del nostro genere, pur inteso nel senso più ampio, pionieri di quel ritorno a sonorità più roots che alla fine degli anni 80 sarebbe diventato un vero e proprio trend, con band come Tangier, Cinderella, Riverdogs, Salty Dog (quando, quando, si decideranno a ristampare quel benedetto disco?), Badlands (quando, quando, eccetera....). Lo Squalo Bianco andava alla riscoperta del più fragoroso rock blues di tradizione sia yankee che britannica, con una predilezione particolare per atmosfere zeppeliniane. Jack Russell, il suo ancora oggi formidabile singer, era quasi un clone del Plant dei tempi d’oro, e forse neppure gli specialisti The White del cantante Michael White sono mai riusciti a replicare certe atmosfere della band del dirigibile come i Great White, che dal vivo non hanno mai risparmiato riproposte di canzoni della band di Plant & Page, ed hanno addirittura registrato un intero disco di cover dei Led Zeppelin. Altra peculiarità della band era proprio la sua inclinazione verso il rifacimento di brani altrui, una scelta coraggiosa in un momento storico in cui suonare una cover pareva un atto al limite del vergognoso (mentre fregare riff e melodie e poi appiccicarci i propri versi sopra era invece ordinaria amministrazione). Il bello era che i Great White non praticavano un rock polveroso e rauco, settantiano senza compromessi, tutt’altro. Quella matrice veniva intelligentemente trasposta nel luccicante telaio dell’hard rock dei Big 80s, rifulgendo di suoni cromati, di melodie anthemiche pur nel rispetto assoluto di quella dimensione blues a cui la band non ha mai rinunciato in venti e passa anni di carriera. Era, dunque, un melodic rock molto, molto bluesato, che anche nei momenti più roots non si negava una spettacolarità discreta e mai soverchiante.

Il volume a loro dedicato della serie ‘Rock Champions’ campiona solo tre album in studio, prelevando tre canzoni da ‘Once bitten’ (1987), tre da ‘...Twice shy  (1989) e quattro da ‘Hooked’ (1991), mentre altri due brani sono tratti dal ‘Recovery: Live’ uscito nel 1987 per la Aegean/Enigma. Naturalmente, come ogni compilation, anche questa è sommamente opinabile nella scelta dei brani. Perché sono stati esclusi il primo album omonimo del 1984, ‘Shot in the dark’ del 1986 e ‘Psycho city’ del 1992? Perché lasciare fuori “Congo square” e “Heartbreaker” e prelevare da ‘Hooked’ la “Can’t shake it” degli australiani The Angels, pezzo simpatico e nulla più? Perché prendere tra le cover zeppeliniane solo “Marliese (Rock’n’roll)” quando c’era da scegliere tra la bellezza di quattordici pezzi tra i migliori del repertorio degli zep, come “Since I’ve been loving you”, “When the leeve breaks” e addirittura “Stairway to heaven”? E, sempre parlando di cover, con quale coraggio è stata lasciata fuori dal mucchio “Gimme some lovin’”? Eccetera eccetera...

Basta con i mugugni. Qui ci sono pur sempre quattordici canzoni, e i due picchi assoluti del repertorio della band: “Rock me” e “House of broken love”. La prima è il più squisito trapianto di atmosfere zeppelinianne nel rock degli anni ottanta che mai band abbia operato (anche se l'impianto generale è sostanzialmente mutuato dalla storica "Radar Love" dei Golden Earring). Neppure i Kingdome Come del primo album erano giunti così vicini alla fonte di quella magia, e il dialogo tra la voce inarrivabile di Jack Russell e la chitarra di Mark Kendall è già leggenda. “House of broken love” è una stupefacente blues ballad dai toni cupi, disperati, dove è sempre l’intreccio voce/chitarra a dominare la scena, una canzone dall’intensità straziante eppure priva di ogni manierismo. Tra le sette cover presenti, non si può non citare la “Once bitten twice shy” di Ian Hunter che dette ai Great White un singolo di successo in USA, la bella “Afterglow” degli Small Faces e naturalmente “Red House”, puro blues del maestro Hendrix divinamente riproposto alla chitarra di Mark Kendall.

Considerato che la sola discografia di studio della band conta dieci dischi, mi pare che questa compilation possa costituire una buona introduzione alla musica dei Great White. Se il genere non fa per voi, c’avrete rimesso pochissimo, e poi i negozi di CD usati sono sempre dietro l’angolo. Se invece scoprirete che delle canzoni dello squalo bianco non potete fare a meno (come me), avrete un vero pozzo di San Patrizio in cui tuffarvi...

 

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AEROSMITH

 

 

  • PERMANENT VACATION (1987)

Etichetta:Geffen Reperibilità:in commercio

 

Come cominciare? Da dove cominciare? Sugli Aerosmith sono stati scritti libri interi... Magari dal fatto che fino a ‘Done with mirrors’ tutti li consideravano una heavy metal band... Bisogna puntualizzare che gli americani hanno usato quella qualifica sempre con molta più libertà rispetto agli europei, appiccicandola anche ai Kiss ed ai Blue Oyster Cult, tanto per fare due nomi (senza dimenticare poi che William Burroughs l’aveva originariamente coniata per definire la musica dei Led Zeppelin...). Dalle nostre parti, “heavy metal” è considerato quello che suonano i Judas Priest o gli Iron Maiden, e neppure a pesi massimi come i Motorhead ci si è mai sognati di applicare quell’etichetta. E allora, per noi del vecchio continente, gli Aerosmith (almeno per quelli che li conoscevano, e non erano poi tanti) fino alla metà dei Big 80s erano solo una band di hard rock americano, dalle grandi fortune in patria ma poco nota fuori dai confini degli states. Mentre i Kiss nei ‘70 erano diventati un caso internazionale, gli Aerosmith erano rimasti un fenomeno autoctono. Proprio come i Kiss, il nuovo decennio li aveva trovati cotti e sbandati: i Toxic Twins s’erano divisi, ‘Night in the ruts’ e ‘Rock in a hard place’ avevano venduto poco e neanche il ritorno di Joe Perry era riuscito a dare una scossa al mercato. Era il 1985, l’America sbavava (giustamente, per la verità) dietro a Ratt, Motley Crüe e Twisted Sister e gli Aerosmith s’erano ripresentati ad un pubblico distratto con quel ‘Done with mirrors’ che era stato registrato in un mese appena sotto la direzione di Ted Templeman, un disco buono ma che diceva veramente poco di nuovo e resta il punto più basso - in termini di copie vendute - di tutta la loro discografia.

Avrebbero potuto accontentarsi. Andare in tour, fare altri dischi limitandosi a puntare sui non indifferenti allori già accumulati, capitalizzando sulle compilations. Vivere di rendita, insomma. Invece...

Come abbia potuto una band che aveva già quindici anni di carriera, uno standard, un suono, rimettersi in gioco in maniera così totale, reinventarsi tanto profondamente, inserirsi con tanta e tale autorevolezza nel solco sonoro del nuovo decennio resta una specie di enigma. Il nuovo sodalizio con il producer extraordinaire Bruce Fairbairn e songwriters come Jim Vallance e Desmond Child non è la soluzione: Bruce Fairbairn non era Terry Thomas, non portava con sé un “suono” ovunque andasse, piuttosto era un validissimo, fondamentale aiuto per le band che volevano svilupparne uno personale e inconfondibile. Dunque: gli Aerosmith, quando entrarono in studio per registrare ‘Permanent vacation’, avevano già le idee ben chiare. Addio all’essenzialità, al songwriting scarno, ai fantasmi dei ’70.

Rispetto a quello che è venuto dopo, si sarebbe quasi tentati di definire ‘Permanent...’ solo una prova generale. ‘Pump’ era indubbiamente un ulteriore passo avanti nella direzione prescelta, con arrangiamenti ancora più avventurosi ed anticonvenzionali. Eppure, ‘Permanent vacation’ non era affatto un preludio, un’avvisaglia di ciò che sarebbe venuto dopo: rappresentava invece un lucido, quasi ruffiano attacco ad un mercato che li aveva praticamente messi da parte, il raggiungimento di un equilibrio al limite della perfezione tra le matrici più genuine dell’hard rock americano ed un suono che all’epoca poteva essere definito “commerciale”. Rinunciando ad alzare  a manetta il volume delle chitarre pur senza mai guardare in direzioni pop, gli Aerosmith si concedevano alle radio FM con composizioni vigorosamente hard rock ma mai ispide o rocciose, infarcite di tastiere, in particolare di quelle sezioni fiati che da quel momento in poi sarebbero diventate non solo un trade mark della band, ma anche un indispensabile elemento formale per chi voleva (e solo Dio sa quanti sono stati) replicare quel suono. Perché ‘Permanent...’ fu un terremoto non solo su Billboard, ma anche nella testa di tanti musicisti che trovarono in questo e negli album che seguiranno un punto di riferimento di ineguagliabile splendore e forza: come dire: uno standard, da tenere sempre presente. Che poi la stessa band decidesse di inasprire questo sound, di arricchirlo di arrangiamenti meno diretti, è motivo soltanto di ammirazione. Dopo aver riavuto tutto quanto (ampiamente) gli spettava, gli Aerosmith semplicemente ci dicevano che non avevano nessun bisogno di scrivere un’altra “Rag doll” o un’altra “Dude”, pur potendolo certo fare senza problemi o imbarazzo: ora che la gente s’era ricordata che c’erano anche loro nel pollaio, potevano permettersi di cantare quello che gli pareva, ed al volume che preferivano. Questo non rende ‘Pump’ o ‘Get a grip  o ‘Just push play’ superiori a ‘Permanent...’, solo diversi, molto più di quanto possa apparire ad un ascolto superficiale. Insomma, mi pare che la carriera degli Aerosmith sia caratterizzata da tre fasi, non da due: gli anni ’70 ed i primi ‘80, ‘Permanent Vacation’, e poi tutto quello che è venuto dopo, comunque già in nuce su ‘Permanent...’, e che veniva in un certo senso annunciato nel pezzo che chiudeva il disco, quello strumentale dall’atmosfera misteriosa e inquietante intitolato “The movie”, con le sue originalità (quella voce femminile che declama qualcosa in gaelico), l’arrangiamento variegato di keys, una fuga dall’ovvio che non a caso era stata messa alla fine, non a suggellare quanto precedeva ma piuttosto ad anticipare tutto ciò che sarebbe venuto poi. Che poi “l’ovvio” degli Aerosmith sia tutt’altro che tale è un altro paio di maniche. “Rag doll” è così semplice, diretta, sembra quasi il ritmo di una banda che marci nelle notti di Bourbon Street, ha un cuore antico ma è un cuore che batte nel petto dell’immaginario rock ottantiano fatto di suoni lussuosi ed allegria scanzonata. “Dude (looks like a lady)” è il trionfo di quegli ottoni che mai più verranno usati con tanta scioltezza dixie, e con un arrangiamento diverso avrebbe potuto tranquillamente essere firmata da un mago del pop rock come Huey Lewis. Ma la band non si nega intricati episodi di quello che si potrebbe con discutibile neologismo definire nu blues, “St. John” e sopratutto “Hangman jury”, con quel suo impasto elettrico/acustico, la melodia straniata di “Simoriah”, il vero e proprio calypso rock della title track, la ballatona aoreggiante “Angel” e perfino la più “ovvia” cover Beatlesiana, “I’m down”.

Dopo ‘Permanent...’, come già detto, verrà qualcos’altro, simile eppure differente, meno diretto ma ugualmente spettacolare. Quale sia il momento meglio riuscito di questa terza fase è impossibile stabilirlo. John Kalodner (l’AOR guru, come lo definisce Andrew di melodicrock.com, che è riuscito nell’impresa quasi impossibile di strappargli un’intervista) è convinto che il top assoluto sia ‘Get a grip’. Per me è ‘Nine lives’, ma credo che qualsiasi giudizio di valore sia puramente soggettivo: è tanto quello che gli Aerosmith hanno seminato, che nella loro foresta non è davvero possibile orizzontarsi, ma soltanto perdersi...

 

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KISS OF THE GYPSY

 

 

  • KISS OF THE GYPSY (1992)

Etichetta:Atlantic Reperibilità:scarsa

 

Ecco un’altra band nata morta. Uscì con questo disco (il suo unico disco, naturalmente), nel 1992, in piena bagarre grunge, era inglese e faceva un hard rock che più classico non si poteva, molto settantiano, con suggestive risonanze root. Chi volete che si prendesse, in quella turbolenta  fase storica, il disturbo di prestargli un po’ d’attenzione? Neppure io, lo confesso, mi precipitai a comprare quest’album, che diventò mio solo un paio d’anni dopo, pescato forse solo per curiosità dallo scaffale di un negozio di CD usati dove era venduto a prezzo ridicolo. Ma bastò un solo ascolto per scatenare un coup de foudre che ancora oggi non si è spento.

Un suono caldo, bollente, opera dell’ ex-Jethro Tull Barriemore Barlow che assiste i ragazzi dietro il banco del mixer. Canzoni che non vogliono inventare niente di nuovo, ma solo celebrare con dignità (e tanta, tanta energia) i fasti del più classico hard rock britannico: Whitesnake, Bad Company, Led Zeppelin, Small Faces e gli altri nomi metteteceli pure voi. Più melodici dei Thunder, meno spettacolari dei Little Angels, lontani dalle tentazioni mainstream dei Quireboys, con un occhio verso gli States ed uno puntato sul pub all’angolo, i Kiss Of The Gypsy trituravano il boogie in “Whatever it takes” e “Infatuation” (così simile all’omonima canzone di Rod Stewart da esserne quasi una versione hard rock), cuocevano al fuoco dell’organo hammond le melodie classiche di “Blind for love”, “From the dirt” e “Keep your distance”, riuscivano a cacciare quasi a forza una scheggia epica di cowboy song nel rude telaio ritmico (sempre in 2/4) di “Easy does it” ed un coro soul su “No prize for the loser”, a cucire praticamente un anthem con “Comin’ back”, a chiudere in gloria con la melodia intensa e piena d’atmosfera di “Promise land”.

 Se solo qualcuno volesse prendersi almeno il disturbo di ristamparli...

 

 

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KATMANDU

 

 

  • KATMANDU (1991)

Etichetta:Epic Reperibilità:scarsa

 

Come posso cominciare queste note sui Katmandu? Con una delle mie solite lamentazioni sul crudele destino toccato a quasi tutti gli album usciti nel 1991, anno primo della dittatura grunge negli USA? Oppure parlando dei Fastway, la band in cui Dave King aveva gloriosamente militato prima di imbarcarsi in questo progetto? Mentre i Fastway si estinguevano con album brutti e inutili come ‘Bad, bad girls, il rosso singer irlandese si associava allo zingaro Mandy Mayer per un disco di caldissimo, viscerale hard rock che emanava profumo di blues, di Led Zeppelin, di melodic metal americano all’ennesima potenza. Un disco che – forse non vale neppure la pena specificarlo – finì in quattro e quattr’otto nei forati tra l’indifferenza generale, ed oggi immagino venga conteso a colpi di carte da dieci su e-bay.

Prodotto dalla coppia Duane Baron/John Purdell, ‘Katmandu’ era un album dalle atmosfere variegate, ma impostato su un registro decisamente elettrico: l’unica vera ballad è la semiacustica “Heart & soul” (costruita rubando dieci, fondamentali secondi alla "Sweet emotion" degli Aerosmith), poi il voltaggio rimane sempre alto, modulato su un’aggressività felina, traditrice, quasi non t’accorgi della pesantezza dei brani grazie al loro incedere agile, ai suoni curatissimi, al mixaggio che ti spara praticamente in mezzo agli occhi i fendenti vibrati dall’ex-chitarrista degli Asia. Scartando l’inutile cover di “God part II” degli U2 – completamente fuori tema – si passa dal tempestoso hard zeppeliniano di “The way you make me feel” e “Love hurts”, al metal commerciale in perfetto stile Ratt di “Only the good die young” e “Pull together”, a due grandi schegge di hard melodico intitolate “Sometimes again” e “Let the heartache begin” (che refrain...); “Ready for the common man” è un anthem da tirare giù le gradinate di uno stadio, “Medicine man” ha cadenze drammatiche da danza di guerra pellerossa, mentre la conclusiva “Warzone” è un attacco a testa bassa. Il capolavoro? “When the rain comes”: un blues che parte lento e ti avviluppa, sinuoso come un boa, poi accelera, salendo in un crescendo incalzante che lascia con il fiato mozzo ed una tensione quasi insostenibile addosso, esplode in mille rivoli elettrici e torna quasi come per magia al punto di partenza... Non solo una canzone straordinaria, ma anche una dimostrazione di maestria esecutiva impareggiabile.

Dell’ugola di Dave King non si dirà mai abbastanza bene: fra  i tanti vocalist Plant-inspired, lui primeggiava per potenza ed elasticità: una voce d’acciaio che sapeva nello stesso tempo carezzare soavemente.

Ed ora, come posso concludere? Magari, con una delle mie solite lamentazioni sul fatto che nessuno fino ad oggi si è degnato di ristampare questo disco favoloso...

 

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SLASH'SNAKEPIT

 

 

  • IT'S FIVE O'CLOCK SOMEWHERE (1995)

Etichetta:Geffen Reperibilità:in commercio

 

Cos’hanno in comune musicisti e calciatori? Una scarsissima attitudine all’esercizio del pensiero logico.  Quando vengono intervistati dai giornalisti dei rispettivi settori di competenza, quello che viene fuori dalle loro bocche è quasi sempre il trionfo della banalità e del luogo comune, un balbettamento farfugliante o qualcosa di molto vicino al delirio. Colgo anzi quest’occasione per lanciare un appello: non fateli parlare! Lasciateli a strimpellare una chitarra o tirare calci ad un pallone, ma, per carità, non costringeteli ad aprire la bocca e buttare fuori il fiato!

Andando nello specifico, il nostro Slash dimostrò quanto poco avesse l’abitudine di far lavorare il cervello quando, durante le interviste che rilasciò in occasione dell’uscita di questo disco, ne spiegò lo stranissimo titolo con un aneddoto che riassumo brevemente. Dunque: Slash si trova nel bar di un aeroporto, si sente, sono parole sue, “di merda” (se solo spiritualmente o anche fisicamente non è mai stato chiaro), così va nel bar dello scalo e dice al barista: – Lo so che sono solo le dieci del mattino, ma dammi lo stesso un Jack Daniels e coca.

E il barista gli serve da bere dicendogli: – Sono le cinque, da qualche parte...

Slash rimase fulminato da quella risposta, un po’ come Gautama sulla riva del fiume dopo aver udito i barcaioli parlare della famosa corda d’arpa (“Se la tendi troppo si spezzerà, se è troppo lenta non suonerà”). Il principe Gautama Siddartha diventò il Buddha, l’Illuminato; Slash – complice forse il bourbon e coca mandato giù alle dieci di mattina – ricevette anche lui un’illuminazione, ma di genere meno splendente e cristallino rispetto a quella che innalzò agli altari della gloria il noto principe indiano. “Che risposta brillante” dichiarò di aver pensato, “ significa un sacco di cose... Che c’è una luce in fondo al tunnel, da qualche parte...”

Sono passati ormai dieci anni dall’uscita di  It’s five o’clock somewhere’, e mi chiedo se qualcuno si sia deciso a spiegare a Slash  che accidenti significa in realtà quella frase... o se – ma questo temo sia un pio desiderio – ci sia arrivato infine da solo. Si tratta di puro gergo da bar. Il tipico bevitore impenitente si dice: d’ora in poi non berrò mai alcolici prima delle cinque (l’ora che tradizionalmente fa da spartiacque tra il pomeriggio e la sera nei paesi anglosassoni). Ma, dato che la terra è divisa in ventiquattro fusi orari, sono sempre le cinque del pomeriggio (o le due, o le nove o quello che vi pare) in qualche luogo del mondo: e allora, stappa una bottiglia e non darti pensiero, tanto sono sempre le cinque, da qualche parte... Insomma: Slash chiede un superalcolico di mattina ed il barista glielo serve con la solita battuta. E lui la equivoca, ci costruisce sopra dei castelli fondati sul nulla e addirittura la usa come titolo per il suo album. Perché nessuno gli ha spiegato come stavano in realtà le cose e gli ha lasciato fare la figura del deficiente o dell’alcolizzato cronico?

Certo che a Slash, di passare per l’uno o l’altro non deve mai essere importato molto. Si faceva fotografare solo con una bottiglia di whiskey tra le dita, per anni ha sopportato senza fiatare i capricci e le angherie di quello schizoide paranoico di nome Axl Rose. E la stessa nascita di ‘It’s five o’clock somewhere’, è noto, si deve all’ormai svanito cantante dei Guns’n’Roses, che sempre più preda di un delirio di onnipotenza degno del futuro presidente Bush jr., rifiutò in blocco tutte le canzoni scritte da Slash per quello che doveva diventare l’ormai leggendario e sempre meno attendibile quinto disco in studio dei Guns. Un rifiuto, ovviamente, mai motivato e che si tramutò poi in incazzatura quando il povero Slash osò prendere quelle canzoni e inciderle per conto proprio...

Per fortuna, Slash trovò infine la forza di lasciare  a se stesso quel demente e cominciare una carriera solista che pur tra alti e bassi ci ha almeno dato il piacere di sentirlo suonare quella chitarra che le follie del signor Axl Rose minacciavano di far finire in naftalina solo Dio sa per quanto tempo.

It’s five o’clock somewhere’ è dunque il quinto disco dei Guns’n’Roses, anche se sotto altro nome? Che la matrice sia quella, non ci piove. E poi, a far compagnia a Slash c’erano Gilby Clarke (che regala a Slash ben tre canzoni), Matt Sorum e Dizzy Reed, e la produzione era curata da Mike Clink. Gli unici estranei al clan dei Guns erano Mike Inez degli Alice In Chains ed il cantante Eric Dover, proveniente dai Jellyfish. La voce rauca, stridente e impastata di Dover era certo l’elemento meno riconducibile al classico sound delle Rose & Pistole, tanto caratterizzato dagli acuti isterici e ferini di Axl; per il resto, la miscela sonora che aveva fatto la fortuna della band di ‘Appetite...’ veniva riproposta con efficacia, sporcandola qua e là di un blues caldo e fangoso che riportava alla memoria gli album più crudi degli Aerosmith e del Joe Perry Project, e di uno street più urbano e punkeggiante del solito che diventava protagonista nelle canzoni scritte da Gilby Clarke.

L’apertura è affidata a “Neither can I”, hard blues notturno, inquietante, una scheggia di vetro nero tagliente come un rasoio, avvolta in una ragnatela elettroacustica attraverso cui vaga un’armonica cupa e maledetta (il solo di Slash, qui ha delle fascinose reminiscenze blackmooriane), e sulla stessa falsariga procede “Lower”, in un’alternanza di fuoco e gelo, gli accordi liquidi, quasi psych di Slash sul cantato strascicato di Dover, poi il coro serrato, il tempo che rallenta di nuovo, la chitarra che si muove ambigua, insinuante... “What do you want to be” poggia su un riff straordinario, incalzante, uno strano tempo zoppo e spezzato, sempre imbrattato di blues, su cui infuria il cantato adrenalinico di Dover, e sigilla il tutto un solo infuocato, dal fervore quasi sudista. Il southern diventa protagonista su “Beggars & hangers - on”, slides che si intrecciano, mood western, un mid tempo potentissimo lubrificato dall’hammond in cui s’alternano muri di chitarre e parti melodiche, e “I hate everybody (but you)”, che è sudista almeno al principio e poi si sviluppa su una trama elettrica che rimanda più che mai al classico Guns’n’Roses sound. “Dime store rock” erutta street metal bollente cavalcando un riff che risuona come una sirena lontana dai meandri di una notte illuminata dalla luce cadaverica dei neon e si spegne in un finale lento e nuovamente blues con un wha wha dilatato e sepolcrale e Slash che ricama accordi pigri, pesanti e lucenti come piombo fuso. Ancora street su “Good to be alive”, cadenzata e funkeggiante; “Monkey chow”, ritmata e oscura, con la voce filtrata nel coro; “Soma city ward” più diretta, più classicamente hard rock. Slash non si nega un breve – troppo breve! – strumentale, “Jizz da pit”, quasi un rithm and blues metallico, violento al principio, poi arriva a spezzare il ritmo un lento fraseggio di basso, una chitarra monumentale e tutto diventa notte, blues, calore umido sotto una luna incandescente, un vortice lento che pare estinguersi in uno sbuffo di fumo di sigaretta... “Be the ball” è troppo monolitica e punkeggiante (almeno per i miei gusti), ma “Take it away” è un hard superbo, come dei Motley Crüe dopo una sbronza di birra avariata o dei Great White diventati sporchi e cattivi, mentre  Doin’ fine” sputa party rock con la voce che avrebbero avuto i Poison se si fossero fatti un’overdose di testosterone e poi fossero andati a rotolarsi nel fango. Chiude in gloria “Back and forth again”, hammond e grande impasto elettroacustico, big ballad ben rifinita e con una più che discreta vena settantiana, sopratutto nel coro.

Che peccato che Slash abbia ceduto alle lusinghe modaiole del progetto Velvet Revolver allontanandosi da quella matrice tanto classicamente hard rock che aveva fatto grande ‘It’s five...’ e contrassegnato comunque (anche se certo non con tanta convinzione come su quest’album) tutta la sua esperienza solista. Speriamo che il sodalizio con il megatossico Weiland si risolva solo in una parentesi limitata e momentanea e Slash riveda presto la luce. Forse è tempo di un’altra fermata al bar...

 

HARD BLUES DEPARTMENT

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RIVERDOGS

 

 

  • RIVERDOGS/ON AIR (2004)

Etichetta:Bad Reputation Reperibilità:in commercio

 

Finalmente una ristampa di pregio... era l’ora! Tra gli innumerevoli desiderata di chi scrive, i Riverdogs si trovavano ai primissimi posti, ed ora sono riemersi dal nulla grazie ai soliti francesi della Bad Reputation, che pare ci dovrebbero regalare (si fa per dire...) entro l’anno anche la réédition dell’opera omnia degli street rockers Kik Tracee.

La ristampa in oggetto si compone di ben due CD: il primo album omonimo del 1990 ed il rarissimo promo ‘On Air’, un live acustico registrato durante una specie di radio tour (si dice così?) che la band tenne sempre nel ’90, girando gli states da una stazione radiofonica all’altra. Questo secondo CD non l’ho neppure estratto dalla custodia: i live non mi dicono niente, gli unplunged semplicemente li detesto; dunque, a tutti gli effetti, per il sottoscritto la riproposta si riduce al primo, formidabile ‘Riverdogs’, e tanto basta. Chi apprezza le acoustic versions troverà poi sicuramente in ‘On Air’ pane per i propri denti.

Ma perché questi Riverdogs sono tanto importanti? Cos’hanno di speciale? E’ presto detto: Vivian Campbell. Dopo aver lasciato gli Whitesnake, il buon Vivian si imbatté in un demo della band che lo entusiasmò al punto da indurlo a mettersi in contatto con loro e proporsi come produttore,  entrando infine in pianta stabile nella line up, che contava sul cantante e chitarrista Rob Lamothe ed il bassista Nick Brophy (le parti di batteria vennero suonate in studio da Mike Baird e Allen DeSilva). Che per l’inquieto chitarrista irlandese questa con i Riverdogs dovesse rivelarsi nient’altro che una parentesi è sicuramente motivo di rammarico, non solo per quanto messo in mostra sulle dieci canzoni che compongono l’album, ma considerato anche lo scarsissimo input dato al progetto successivo al quale partecipò, gli Shadow King (chi vuol saperne di più, clicchi qui), e le prove tutto sommato opache con gli ormai spompati Def Leppard.

Fin dall’immagine di copertina, con i nostri tre eroi fotografati in sepia tone sullo sfondo arido di un deserto in compagnia di un paio di Harley-Davidson dal look molto vintage, era trasparente che i Riverdogs non andavano ad accodarsi alla folta schiera di class/glam/AOR bands che prosperava nella città degli angeli, ma guardavano più indietro nel tempo, a quell’hard bluesato di cui erano stati gloriosi campioni Bad Company e Whitesnake, rileggendolo però in un’ottica totalmente americana  anche se meno root e sudista di quanto facevano i contemporanei e pur validissimi Tangier.

Ne viene fuori un album intenso, cupo e scintillante, semplice ma tutt’altro che ovvio, centrato alla perfezione sul tema: il blues, la sua forza che si basa in primis sull’interpretazione, sul feeling, sulla capacità di creare emozioni. Ed il merito del successo va equamente diviso tra Vivian Campbell, forse mai tanto ispirato, e Rob Lamothe, con il suo vocione che sembra nato da un incrocio tra il David Coverdale più bluesy ed il Chris Cornell meno lamentoso.

Questo non è un disco fatto di party songs, ma neppure da tenere da parte per i giorni di pioggia. Meno violenti dei Katmandu, più ruvidi dei Tangier, privi degli accenti zeppeliniani e festaioli dei maestri Great White, attenti alla melodia pur con minime concessioni radiofoniche, i Riverdogs confezionavano dieci, piccole gemme di hard rock fascinosamente blues, tessuto e ricamato dalla chitarra di un Vivian Campbell finalmente libero di suonare quello che più gli piaceva dopo gli anni del metal tozzo e rauco dell’esperienza Dio ed i tour con gli Whitesnake. Per me, il top è quella bruciante preghiera elettrica intitolata “Rain, rain”, ma non mi sembra opportuno puntare il dito su questo o quel titolo: ciascuno troverà in queste dieci schegge i riverberi che più lo affascinano, i momenti che finiranno per stamparsi a fuoco nella memoria.

I motivi per cui Campbell mollò la band a soli pochi mesi dall’uscita del disco non sono chiari: forse la sirena Shadow King aveva già cominciato a cantare, forse gli scarsi riscontri di vendita scoraggiarono il chitarrista irlandese. I Riverdogs licenziarono solo un altro disco in studio, il magnifico ‘Bone’, che pativa il confronto con questo piccolo capolavoro quasi solo nelle parti soliste di chitarra, ben gestite da Nick Brophy ma meno pirotecniche, prima di sciogliersi.

Non sono riuscito a capire se sia stato o meno fatto un remastering di ‘Riverdogs’, mentre certo è che questa operazione ha riguardato ‘On Air’. Il suono è comunque eccellente, in linea con quanto usciva su major (l’etichetta originale era la Epic) alla fine degli anni 80. Adesso, se i cugini d’oltralpe potessero fare qualcosa - tanto per rimanere in tema hard rock blues - per i dischi di Salty Dog, Dirty White Boy e Badlands...